Chissà se abbiamo veramente ragione quando diciamo che le cose in Italia sono cambiate, che finalmente si sta guardando in avanti, che non è vero che un determinato tipo di cinema non si può fare. Chissà se i generi, le piccole produzioni, i film senza le grandi star (altra questione: in Italia, le star, ci sono? Paola Cortellesi dimostra di sì) possono avere davvero la possibilità di crescere e prosperare in un mercato che, molto spesso, si è presentato cieco e sbilenco.
La verità è che, anche qui molto spesso, il panorama italiano si avvale di meriti che non appartengono affatto alla filiera, a come è pensata e organizzata. E sempre molto spesso è merito dei piccoli e dei piccolissimi – i quali si muovono soltanto con le loro gambe – se il pubblico italiano può vedere davvero oltre le proposte da commedia e dramma da camera.
Il caso del biglietto d’oro al Cinema Troisi, per il secondo anno consecutivo, ne è la prova: il successo è garantito nel momento in cui permetti a pellicole senza distribuzione (o quasi) di intercettare il pubblico. Patagonia, Una sterminata domenica, Non credo in niente. A suo modo anche Il grande caldo, che dopo una serata particolarmente calorosa ha riproposto questo strano esperimento girato dieci anni prima nella monosala trasteverina.
Anche i festival hanno da sempre, o almeno dovrebbero avere, una spinta verso la ricerca e la scoperta. Verso la scommessa di un cinema che non ragiona dentro gli schemi, ma sperimenta in maniera molto, molto più grande. E visto che i film citati hanno mostrato che, a volte, si può contare solo sui propri sforzi (riuscendo a riempire la sala proiezione dopo proiezione), a darne ulteriore esempio è Fabio D’Orta.
The Complex Form, l’esordio di Fabio D’Orta
A lavoro nel mondo degli spot commerciali per anni, sostenuto da una mini casa di produzione nata letteralmente “per far vedere a tutti il talento di Fabio” e atterrato in anteprima al Torino Film Festival 2023, il regista e sceneggiatore di origini milanesi ci porta nel mondo dei suoi mostri con The Complex Form, alieni simili ad altari in movimento ispirati a Il sonno della ragione genera mostri di Francisco Goya.
Nel film ha fatto tutto lui. Regia, sceneggiatura, scenografia, color, montaggio. Ci mancava solamente che lo interpretasse – per quello ha scelto l’attore professionista David White, gli altri sono volontari contattati tramite le associazioni del territorio lombardo. E non è perché D’Orta è un maniaco del controllo, non troppo (“Non vedo l’ora di delegare!”, ammette), bensì per la mancanza di investimenti a sostegno del suo debutto al lungometraggio.
Opera sci-fi in bianco e nero (“C’entra una scelta indipendente, anche per una questione di budget, ma in fondo era l’atmosfera più giusta per la storia”, spiega il regista), ambientata in una villa che ha contribuito a ispirare un racconto di vuoti e sofferenza, capace di risolversi con la più umana delle soluzioni, la pellicola è la rappresentazione dell’impegno incessante di Fabio D’Orta. Di una personalità che, dopo aver detto a tutti che avrebbe potuto farcela, cercando fondi e finanziamenti non vedendoli mai arrivare, ha deciso di fare da solo. Non più di chiedere, ma di dimostrare.
Un mese di riprese (l’ultimo ciak il 2 marzo 2020, circa una settimana prima del lockdown per la pandemia), attori non protagonisti, tre anni di post-produzione e l’intero assetto degli effetti speciali tutti nelle mani di D’Orta. E la produzione di Metronic Films, che oltre al regista conta anche Mariangela e Mariacristina Bombardieri. “Già dipingo, scolpisco, ho a che fare con la creazione”, commenta con leggerezza l’approccio agli effetti visivi, che ha imparato praticamente a fare in autonomia, man mano che il progetto lo richiedeva.
Dal montaggio agli effetti, un cinema fatto da sé
“Avevo puntato degli altari messicani pazzeschi e pensavo sarebbe stato bello mostrarli mentre si muovevano. Allora li ho disegnati, ho creato le ossa per farli muovere, la texture da colorare. Dopo li ho resi in digitale”. Da solo, tutto da solo. “Volevo sfruttare il bagaglio di esperienze che mi portavo dietro. Un po’ di montaggio lì, un po’ di effetti speciali qua. La storia, però, è molto più semplice di tutta la sovrastruttura fantascientifica. Volevo fosse una piccola avventura stile Un tranquillo weekend di paura, con tre personaggi che finiscono per fare gruppo e tentano di uscire da una situazione complicata”.
Nel caso di The Complex Form i protagonisti sono tre uomini che vendono il loro corpo per essere posseduto da esseri mostruosi. Non sanno come il trasferimento da alieno a essere umano avvenga, non sono nemmeno sicuri che riusciranno a superarlo o quando sarà il loro turno. Sanno solo di avere bisogno di soldi e che quello è il modo più facile per ottenerli. Finché non decideranno di scappare.
“Mi ha ispirato l’atmosfera sacra della location e l’inadeguatezza di personaggi che stanno attraversando un momento nella loro vita in cui si sentono persi”. Un “Clerks di fantascienza” lo ha definito D’Orta. Un “Kammerspiel con i mostri” rilancia Riccardo Amorese, compositore della colonna sonora.
“Sono io che ho cercato Fabio per chiedergli di lavorare insieme”, racconta il musicista, una scommessa su di un cineasta che non aveva ancora realizzato nemmeno il suo primo film. “Fa cose in Italia di cui nessun altro è capace. Crea materiale di una potenza che è strano non si voglia produrre, forse a causa di una certa miopia”.
Colonna sonora, premi e follie da ripetere
Anche il lavoro svolto da Amorese è perfettamente in linea con il desiderio di magniloquenza di The Complex Form: “C’è una colonna sonora muscolare, sinfonica, un po’ russa. Ma è un’illusione. Ho un violino, un violoncello, e come accade anche in America, faccio uso di orchestre sintetizzate che aumentano il volume”.
Il risultato è una combinazione imponente e espressionista, che ha contribuito a suggerire le intenzione corrette agli attori: “Avevo visto i mostri sull’IPad, avevo provato a immaginarmeli, ma è stato quando Fabio ha sparato la musica sul set che ho avuto l’impressione che fossero davvero davanti ai miei occhi”, confessa David White, il protagonista.
“Poi, ovviamente, sono rimasto sconvolto quando ho visto le creature sullo schermo. Sono dieci anni che lavoro nel cinema indipendente horror e sci-fi, ma nessun film che ho mai fatto mi ha colpito quanto The Complex Form. Considerando il tempo e la troupe che avevamo, ciò che Fabio è stato in grado di realizzare è impossibile, quasi difficile da credere”. Invece, a quanto pare, è possibile. E bisogna proprio crederci.
Vincitore al festival di Torino con una menzione speciale nella sezione Crazies, pronto a spiccare il volo aspettando di trovare quanto più pubblico sia disposto a dargli fiducia, The Complex Form è al confine tra la consapevolezza che esiste un cinema estremo e coloro che lo vogliono e lo possono fare (“Che poi – confessa il regista – Un giorno mi piacerebbe girare anche un film più classico, magari”). Basta solo sapersi svegliare e uscire dalla nostra “possessione”, monotona e poco coraggiosa come sa essere il mercato tradizionale.
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