Questa è la storia di Iman, un wrestler iraniano, che per ragioni all’inizio poco chiare arriva in Svezia con la moglie e le due figlie come rifugiato. Per mesi vengono spostati da un alloggio all’altro e la risposta alla loro richiesta di asilo continua a essere posticipata. La moglie resta incinta di un terzo figlio e Iman decide di tornare in palestra: forse giocare da wrestler nella squadra nazionale svedese li aiuterà con il visto. È qui che incontra Thomas, con cui si costruisce un rapporto fatto di avvicinamenti e forti respingimenti, ed è lì, in palestra, durante i combattimenti, nel contatto con altri corpi e con il proprio, che Iman c’è, è presente. Ed è questo mondo a cui non ha accesso che la moglie soffre profondamente e che li allontana, e a volte riavvicina, ma soprattutto li allontana sempre di più. Questo è Opponent, il film presentato dalla Svezia per la selezione agli Oscar.
Proiettato sabato sera al MiX Festival, Festival Internazionale di Cinema LGBTQ+ e Cultura Queer di Milano, in una sala del Piccolo Teatro Strehler, già premiato alla settantatreesima Berlinale, Opponent è il secondo lungometraggio di Milad Alami (dopo The Charmer, 2017), regista di origini iraniane, arrivato in Svezia da bambino come rifugiato e ora residente a Copenaghen dove ha frequentato la National Film School of Denmark.
Incontriamo Milad Alami appunto durante il MiX festival, nel foyer del teatro.
In questi mesi sono usciti diversi film che parlano, in modi pur molto diversi, di immigrazione. Per esempio Le nuotatrici della regista Sally El Hosaini, oppure Io Capitano di Garrone. Il cinema cerca di fare quello che non riesce o non vuole fare la politica?
Il fatto secondo me è che i politici cercano di dare risposte mentre il cinema pone domande. Questo è ciò che il cinema può fare. Le risposte che cerca la politica sono risposte facili: arrivano a conclusioni come “La crisi dei rifugiati distruggerà il nostro sistema pensionistico”, o addirittura definiscono “crisi” un rifugiato. Il cinema invece può andare molto a fondo nell’esperienza umana, può guardare attraverso gli occhi dell’empatia, senza giudicare, vedendo le persone non come “tragedie in arrivo” ma come esseri umani.
Non ho visto il film di Garrone ma so che parla di persone in fuga, sui barconi. The Opponent invece parla più di chi è incastrato nel sistema di detenzione dei rifugiati e di come questo sistema li condiziona.
Non trova però che in Opponent l’immigrazione sia l’ambientazione, la condizione in cui si svolge il film, piuttosto che il soggetto? Come un film non sulla guerra ma ambientato durante una guerra. può essere un modo di raccontarla in maniera più efficace?
Esatto. Penso che quella dei rifugiati non sia tanto il soggetto quanto la realtà in cui il protagonista, Iman, è immerso. E non è poi strano: vale lo stesso per me, è la realtà in cui sono cresciuto. Il centro rifugiati è dove si svolge gran parte della storia e io ci sono stato, mi ricordo tutto.
Del resto, penso che spesso i film che parlano di rifugiati siano film sulla libertà, sulla possibilità di lasciare un paese per essere liberi politicamente. In questo caso invece non si parla di quel tipo di libertà ma di libertà interiore, della lotta interiore di Iman per essere libero dentro di sé. Il tema del film non è tanto questa famiglia che fugge dall’Iran e si trova nelle maglie dei centri rifugiati, ma come ciò che accade agisce sul protagonista.
L’identità del protagonista infatti non si riduce a quella di rifugiato, tutt’altro. Quando gli viene chiesto di parlare di sé risponde “padre di tre figli, wrestler, rifugiato”: e capiamo che non ha detto quasi niente, nessuna di queste tre parole basta a definire una persona…
Quando crei un personaggio cerchi di farlo il più umano possibile e, lo ricordo bene dalla mia esperienza, quando sei in quella condizione non ti senti “un rifugiato”. Io stesso oggi non mi sento un regista irano-svedese, ma un essere umano con tutto ciò che ci può essere dentro. Ed era importante per me che i personaggi del film non fossero ridotti allo status di rifugiato.
È proprio questo ciò che può fare il cinema. Quando leggi i giornali vedi solo la parola “rifugiati” e sembrano tutti rientrare in un unico insieme, mentre ci sono storie completamente diverse, persone con una cultura, magari pure benestanti, e soprattutto persone che non si percepiscono come vittime.
È la complessità dell’identità uno dei temi del film?
Io sono nato in Iran, poi mi sono spostato in Svezia e poi ancora in Danimarca dove sto da 12 anni. Quindi per me è una questione molto interessante. Magari pensi che l’identità sia qualcosa di statico, che sia ciò che sei. In realtà l’identità è fluida, cambia in continuazione. Ogni mattina ti svegli che sei una persona e quando poi la sera vai a letto sei una persona completamente diversa.
C’è una citazione di Joan Didion che mi piace molto: “Ho già perso i contatti con un paio delle persone che ero”.
Ma l’identità è interessante anche da un altro punto di vista. La cultura scandinava è molto fiera della propria identità e mi piace mettere in discussione questa “identità scandinava” e mettere in discussione ciò che è “svedese”. Sicuramente non è ciò che era trentacinque anni fa. I politici populisti di destra si aggrappano a questa identità stereotipata e fissa. Mentre in tutte le storie che scrivo c’è una persona a cui succede qualcosa per cui è costretta a interrogarsi su di sé, mettersi in dubbio.
Siamo al MiX festival e si potrebbe dire che il film parla di omosessualità, ma anche questo non sarebbe del tutto vero. Iman ama sua moglie e allo stesso tempo si trova ad amare altri uomini. Forse racconta più della possibilità di amare più persone allo stesso tempo.
Sì, per me la questione era più ampia, non si trattava solo di parare di omosessualità. Avendo vissuto in Iran dove ci sono identità estremamente stereotipate, e idee stereotipate di cosa siano un uomo e una donna, trovo interessante lavorare con questa libertà del desiderio e stare con persone e personaggi che sarebbe stato impossibile incontrare in Iran. Volevo parlare non di omosessualità, ma di libertà, di libertà di amare chi si vuole e di amare se stessi per la persona che si è. Anche perché sono cresciuto con persone così, a metà fra una cosa e l’altra, che vivevano in un tradizionalissimo matrimonio iraniano ma desideravano anche altro.
Quanto difficile è la vita di un omosessuale in Iran?
Se sei apertamente gay finisci in galera, ma è ancora peggio di così: la sessualità in generale è completamente tabù. Soprattutto per le generazioni più anziane, per i giovani è diverso perché hanno accesso a internet. Avere una sessualità diversa da quella “straight” è impensabile. Se baci una donna per strada o ti tieni per mano vieni ripreso, se baci un uomo vai in prigione o peggio.
Tutto in Iran ha a che fare con la repressione, il sistema si regge sul divieto di pensare liberamente.
A volte si dice il contrario: che la generazione che ha sessanta o settant’anni è più libera perché ha vissuto l’Iran di prima.
In parte è vero, loro hanno avuto esperienza della libertà e poi però si sono trovati intrappolati in questa ideologia e in questo sistema passando dall’esperienza traumatica di vedere tutto cambiare nel giro di una settimana. I giovani invece sono cresciuti dentro a questo regime e hanno un’altra scorza. Sono capaci di una resistenza molto forte. Scendono in piazza tutte le sere e sono disposti ad andare in galera, o molto peggio, per mettere fine a questo regime. Durante la guerra con l’Iraq, le famiglie erano incentivate economicamente dallo Stato a fare più figli. E ora quei figli sono grandi, e sono tanti, sono un quarto della popolazione e si stanno rivoltando contro quello stesso Stato.
Il wrestling non appare solo come uno sport violento: c’è la violenza e insieme moltissima sensualità, a volte dolcezza, sicuramente comunicazione. È questo – lo sport, il corpo – il luogo in cui avviene la comunicazione?
Sì, per me il wrestling aveva a che fare con l’intimità. Anche filmare questi uomini così belli e sensuali e andare così vicini al mondo che si cela nello sport, era un modo di entrare nella loro interiorità. Lo sport è il luogo dove Iman esprime quello che non sarebbe nemmeno in grado di mettere in parole. Non riesce a dire a se stesso chi è e cosa desidera, ma nel wrestling sì.
Anche il suo film precedente, The Charmer, era molto incentrato sul ricostruirsi una vita in un posto nuovo e il passato di cui non ci si può liberare. A che fare con la tua esperienza personale?
Ho scritto questi due film molto velocemente, uno dopo l’altro, ed è per questo che hanno temi simili. In entrambi, l’unica cosa che i due protagonisti hanno a disposizione è il proprio corpo. Nel primo un uomo va a letto con delle donne per cercare di ottenere la cittadinanza – ed è una pessima idea – mentre nel secondo Iman cerca nel wrestling lì ciò che ha perso in Iran.
Quando provieni da un paese e vai a vivere in un altro, magari all’inizio cerchi di rifuggire da quella parte della tua identità, ma poi crescendo la fai tua, la integri in quello che sei. Per me personalmente non è stato un problema, non ho mai dovuto lottare per scegliere cosa essere, ma è stato interessante lavorare con questi personaggi. Il prossimo film avrà un tema diverso, sarà sul potere, ma potrei in futuro farne uno in cui questi due personaggi si incontrano, così si potrà dire che è una trilogia (ride).
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