“Hai presente quei film sperimentali dove dopo mezz’ora ti domandi: sarà sempre così?”, chiede James Norton, alias Nick Pearce nel film Ex-Husbands di Noah Pritzker. “Sono in un momento in cui mi chiedo: sarà sempre così?”, finisce la frase il protagonista, appena mollato dalla futura moglie che ha scelto di annullare il matrimonio a causa del suo essere smidollato. Sarà anche la depressione a frenarlo, ovviamente. “Mi sorprende che Thea lo abbia sopportato così a lungo”, commenta un amico del non-più-sposo.
E lo stesso vale per il secondo lungometraggio di Pritzker, al debutto nel 2015 con Quitters. Dopo una mezz’ora – e forse anche qualcosa di più – in cui i protagonisti si incontrano, partono, fanno la loro vacanza e poi tornano a casa con gli strascichi di un addio al celibato non propriamente riuscito, è normale domandarsi come mai il tono di Ex-Husbands sia sempre uguale. Mite, discontinuo, poco ritmato. Il che non è un male.
Che il film giocasse di dissonanze lo si evince fin dall’inizio. È la musica che lo suggerisce. Un mix tra jazz, blues, melodie dinoccolate che stridono con le New York e Tulum riprese dall’obiettivo, più semplici di quanto la musica vorrebbe suggerire, e che ci dice immediatamente come stanno le cose nelle vite scombussolate dei personaggi.
Ex-Husbands, tre generazioni, tre diversi problemi
Ex-Husbands è la dinastia degli uomini della famiglia Pearce designata a lasciarsi con il proprio partner, sempre. Che sia il capostipite, il Simon interpretato da Richard Benjamin, che pur a ottant’anni decide di divorziare dalla moglie (“Vivrò ancora altri quarantanni”, “Ne avrai 110”, “Venti, venticinque”). O il figlio, il Peter di Griffin Dunne, che invece deve sottostare alla volontà della moglie di volersi separare. E infine i suoi, di figli, Nick e Mickey (Miles Heizer), quest’ultimo ancora molto giovane per dover divorziare, ma già rimasto scottato dopo una scappatella – e il coming out – avuta con un uomo sposato. E sì, con una donna.
In questi tumulti emotivi in cui si ritrovano gli stati d’animo dei protagonisti, la pellicola fa una cosa strana: non spiega mai le derive della depressione, i motivi per un divorzio o le ragioni per cui si dicono o si fanno certe cose. Nessuno si mette a discutere di nulla. Eppure si capisce tutto. E l’opera mantiene costante questa leggera consapevolezza – anche se, di leggero, c’è ben poco.
È chiara l’impossibilità di Nick di poter riparare un rapporto a causa della sua condizione di salute mentale, come la testardaggine di Peter che rischierà di farlo scontrare per sempre con una realtà che non sarà mai capace di accettare (prima il divorzio dei genitori anziani, poi il suo). Forse Mickey, in mezzo a tanta incertezza, potrà trovare un giusto equilibrio. Oppure inizierà anche lui a fumare per sconfiggere l’ansia (“Solo quando sono stressato, nei cimiteri”). Ma ciò che ci dice il personaggio di Peter, che vuole essere la voce del film di Noah Pritzker, è rendersi conto che “non è stato tutto una merda”. Non lo è stato affatto. E nei momenti peggiori, basta solo ricordarlo.
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