C’è chi faceva all’amore mentre cadeva il Muro di Berlino, mentre la folla attraversava incredula i varchi tra est ed ovest della città che aveva fatto da crocevia della guerra fredda, la città che per quasi tre decadi è stata il simbolo della divisione del mondo. “Quella notte eravamo il più felice di tutti i popoli”, ci raccontò Edgar Reitz qualche anno fa: il 9 novembre 1989 lui era lì, a Berlino, con la sua troupe, e subito immaginò quella scena che apre Heimat 3 — Cronaca di una svolta epocale, in cui Hermann e Clarissa, i protagonisti, stanno a letto avvinghiati e vedono in televisione i berlinesi che davanti al globo e alla storia picconano l’immensa cicatrice di pietra che aveva segnato la Germania, l’Occidente, il Novecento.
È considerato il cantore dell’anima tedesca, ed è anche per questo che ora viene celebrato con la Berlinale Camera, premio con il quale il festival “onora personalità e istituzioni che hanno dato un contributo speciale al cinema”. Nel caso di Reitz – il cineasta intellettuale venuto dalla profonda provincia tedesca – è il minimo sindacale: la trilogia di Heimat ha rappresentato una sfida senza precedenti alle consuetudini del cinema mondiale, ed è al tempo stesso un’avventura che ha forzato le leggi del mercato, la logica dello star system, quasi quasi pure il buonsenso, un’opera di dimensioni ciclopiche in cui viene narrato un secolo di storia tedesca, però attraverso l’intimità dei suoi personaggi comuni: laddove il primo Heimat aveva la durata di 15 ore e mezza, Heimat 2 si estendeva ventisei ore suddivise in tredici episodi, lo Heimat numero 3 più modestamente è composto da sei episodi, per una durata totale di 11 ore e 39 minuti. Certo, poi ci sono stati l’epilogo di Heimat-Fragmente: die Frauen (solo due ore e ventisei) e L’altra Heimat – Cronaca di un sogno, che invece è un film quasi “normale” (230 minuti).
Ora, a parte il fatto che per certi aspetti il suo abnorme opus ha anticipato, in maniera spettacolare, la serialità come la conosciamo ai nostri giorni, è un fatto che Reitz – nato nella Renania profonda nel 1932 in un paesino, Morbach, in tutto e per tutto simile alla Schabbach narrata in buona parte delle vicissitudini di Heimat – affronta apertamente il cuore, il tema centrale, dell’essere tedesco: la difficoltà di chiamare “patria” il proprio paese dopo l’orrore dell’Olocausto, una ferita che con il Muro e la divisione della Germania è diventata ancor più paradossale. E lui, esploratore d’immagini in cerca della patria dello spirito, l’affronta di petto: la parola “Heimat”, in tedesco, altro non vuol dire che “patria”, pronunciarla, finché non è arrivato il suo ciclo per immagini, era quasi un tabù in Germania.
Laddove le avventure dei giovani Hermann, Clarissa e amici in Heimat 2 (il segmento cruciale nell’epopea reitziana) sono la ricerca del loro luogo dell’anima che altro non può essere che l’arte al posto dell’appartenenza geografica nel furore degli anni sessanta, Heimat 1 racconta le vicissitudini di una piccola comunità tedesca dall’inizio del secolo scorso fino alla grande guerra e Heimat 3 è l’approdo nonché il nuovo inizio di un paese ancora una volta in cerca di una propria identità dopo la caduta del Muro. Il tutto narrato con uno stile visionario, con i frequenti passaggi dal bianconero al colore e viceversa, che talvolta sfiora i limiti del barocco (non è un caso che in un’intervista di oltre trent’anni fa Reitz ci parlasse del confine nascosto, interiore, rappresentato dai vitigni della Mosella a separare la Germania cattolica da quella protestante: “Nel cinema tedesco protestante ci sono sempre paesaggi senza personaggi”, ripeteva sorridendo, per dire che lui, invece, raccontava i personaggi “dentro” i paesaggi).
È un continuo capovolgimento delle nostre aspettative, il cinema di Reitz. Venticinque anni dopo la caduta del Muro, il cineasta ci parlava dei tedeschi che hanno “una forma di pudore di fronte alla propria storia, tutto quello che suona nazionalistico rappresenta un problema vero per i tedeschi, perché capiscono bene che si tratta di un capitolo oscuro. Ma contrariamente a quello che molti pensano all’estero, oggi la maggioranza dei tedeschi non si scalda per il concetto di nazione: sente più forte il legame con la propria regione che quello con la nazione. Oggi l’identità che scegliamo è, spesso, una specie di antidoto alla globalizzazione, ad un sistema di mercato che tende ad annullare le differenze. I vestiti sono uguali, il cibo è uguale, i giocattoli sono uguali, lo smartphone è lo stesso, tutto è uguale in tutto il mondo”.
Spiegava, Reitz, che la Germania aveva sempre avuto problemi con la propria identità. Non solo: parlava della “paura del futuro” come “attitudine tipica dei tedeschi”, diceva che “con il Muro sono stati gettati alle spalle anche i grandi concetti utopici. In molti a sinistra avevano cercato di difendere la carica ideale del socialismo contro l’apparato di Stato: d’un tratto tutto questo era finito, e sono prevalsi il ripiegamento sul privato e la perdita delle illusioni: anche questa è la Germania oggi”.
C’è poi un caso nel caso da segnalare: l’impatto di Heimat in Italia è stato particolarmente forte. Mentre in Germania i film avevano scatenato soprattutto un dibattito di natura politico-culturale, nel nostro paese gli episodi del film-monstre erano diventati un appuntamento imperdibile, un fenomeno cult che vedeva centinaia di persone a fare la fila nei cinema all’aperto, le sale d’essai e cineclub erano pieni come uova, dibattiti a non finire, colte articolesse sui principali giornali.
E così, oggi, in qualche modo è anche un omaggio all’Italia se la Berlinale finalmente s’inchina a Reitz, “uno dei registi più influenti della sua generazione”, come scrivono i direttori (uscenti) Mariëtte Rissenbeek e Carlo Chatrian, che parlano di Heimat come di “un’opera che rimarrà per sempre, una pietra miliare nella storia del cinema”, e del regista come di un uomo che, a 91 anni, “è ancora disposto a mettere in discussione chi siamo e da dove veniamo: nel suo ultimo lavoro, Filmstunde_23, riesce a trasporre al cinema l’idea di casa come luogo di desiderio, sia reale che immaginario”.
Ecco, appunto. Questo nuovo piccolo film di Reitz, presentato qui in anteprima mondiale, è forse una delle pellicole più struggenti che si siano viste a questa Berlinale: è una specie di documentario, che ci porta per mano in uno dei primi esperimenti del regista, quando lui, trentacinquenne, insegnò il cinema ad una classe di ragazzine in un liceo di Monaco. Ancora una volta un viaggio nel tempo: l’anno era il 1968, ed oggi le alunne di allora si ritrovano tutte insieme con Reitz, oramai novantenne. Scorrono le immagini di allora e si alternano con i volti di oggi, si vede il giovane Reitz esporre con una lucidità straordinaria le verità profonde del fare il cinema insieme alle ragazze, tutte intorno ai 13 e 14 anni. Tanto che per tutte loro quell’esperienza di così tanti anni fa è rimasto un ricordo indelebile, un passaggio che le ha segnate per tutta la vita, che le ha insegnato cosi sia il racconto per immagini in movimento, il senso delle immagini, e per estensione, cosa siano il desiderio, la passione, il fondamento delle nostre scelte.
Memoria, passato e desiderio che battono nel cuore delle persone: questa, finanche in questo piccolo film (in italiano il titolo potrebbe essere “L’ora di cinema”, nel senso di lezione) di un gigante della settima arte oramai novantenne (e firmato insieme a Jörg Adolph) è la chiave di tutta la sua vita, oltreché della sua opera. Pensare che la sfida monumentale di Heimat nacque dopo uno dei flop più brucianti di sempre, Il sarto di Ulm, del 1978: è la forza di rialzarsi, di reinventarsi con una sfida ancora più avventurosa, pericolosa, con il regista che correva da un produttore televisivo all’altro, da una casa di produzione all’altra, per farsi finanziare un oggetto cinematografico come non ce n’erano mai stati.
Una forza che Reitz ha tratto proprio dal suo essere “un provinciale”, così raccontava. “Vede, la nazione tedesca è sempre stata innanzitutto un’idea culturale, composta da una lingua comune, da radici culturali comuni. Fino ai tempi di Bismarck, la Germania proprio non era un concetto politico. Tuttora la nostra idea di libertà è intrisa di questo romanticismo ottocentesco. Ma è solo un sogno, un sogno che non abbiamo realizzato”. Quel che resta è la forza del cinema, l’amore sulle macerie fumanti del Muro.
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