Questa intervista a Carlo Verdone è pubblicata nell’edizione cartacea di The Hollywood Reporter Roma, Numero 1, in cui i protagonisti del mondo dello spettacolo romano raccontano la loro Roma e i loro luoghi del cuore.
“Non lo avrei mai immaginato. Quello è diventato un luogo beckettiano, un Aspettando Godot dove al posto di Godot c’è l’attesa eterna e mai soddisfatta di un bullo e della sua Fiat Dino”. Reagisce così Carlo Verdone quando gli confessiamo il risultato di una ricerca su internet: Google Maps, in tutto il mondo, definisce il Palo della Morte “monumento commemorativo”. “Trovo fantastico che quel non luogo, figlio del mio primo film, sia diventato un centro di aggregazione: ogni 15 agosto una folla si mette lì e aspetta qualcosa che non arriverà mai, di fatto è una performance teatrale. E lo sai che a Piazza Rossellini a Ladispoli c’è una targa con su scritto: ‘Questo è il luogo immaginario dove Leo scende dalla corriera Roma-Ladispoli. Un sacco bello – 1980’”. Una scena che non esiste. Un premio, quello della fantasia collettiva, che vale più di un Oscar.
“Mi fa capire che ho fatto cose che sono rimaste. Anche perché, come nel caso del Palo della Morte, ho fotografato una periferia arida, ancora in costruzione, che pochi chilometri prima aveva visto già il cinema con Ladri di Biciclette e che lì restituiva un paesaggio, morale e fisico, alla Pasolini, ma a colori. Ho restituito un pezzo dell’identità della Roma più profonda, come quando sulla musica di Ennio Morricone mi cade la bottiglia d’olio a Porta Settimiana, una scena poetica che dice tanto di una città, in una stagione particolare, e della romanità. Pure lì c’è una targa (d’inciampo, c’è qualcosa di più romano?) che recita “Girato qui/Shot here Un sacco bello di Carlo Verdone (1980) A Porta Settimiana Leo (Carlo Verdone) schiva l’auto di Mario Brega e rovescia una bottiglia d’olio. Al diverbio col vicinato segue l’incontro con la turista spagnola Marisol”. Cioè Marisòòòò, come imparammo a chiamarla tutti noi, quando lui la perse al Bioparco in quell’agosto capitolino, il mese che solo il vero romano sa apprezzare, rimanendo in città.
I dialoghi geniali di Verdone
Perché Carlo Verdone, con la sua commedia melodrammatica, con i suoi dialoghi geniali che generazioni hanno ripetuto attorno ai falò in spiaggia come nelle cene conviviali, con i suoi archetipi antropologici, con la sua esilarante malinconia ha fatto per Roma quello che Woody Allen ha fatto per New York. “Me lo prendo questo complimento, senza falsa modestia. Ma c’è una differenza profonda: lui racconta solo la borghesia newyorkese, io ho guardato ovunque, partendo dal proletariato e dal coattume per arrivare, sì, anche ai borghesi, a una Roma più elegante”. Carlo Verdone, per Carl Brave, è l’imperatore di Roma e come tale l’ha voluto nel videoclip di Che poi – “è stato carino lui, ma lassa perde” – e ha sudditi innamorati che abitano a Roma ma arrivano anche dalle province dell’Impero.
“Non è facile, un po’ l’ho raccontato anche nelle due stagioni di Vita da Carlo, vengono da Udine, da Lecce, dall’estero. Uno, una notte, ha scavalcato il cancello di casa mia e ha dormito sullo zerbino. Per un selfie. Siamo alla follia: quando voglio uscire chiamo il portiere, senza il suo via libera mi tocca rimanere a casa. E dire che il quartiere mi protegge pure, la gente di qui mi sorride, ricambio, e va così. Per questo, e perché Roma purtroppo non è più la stessa, me ne scappo in campagna appena posso, nella mia villetta in Sabina, tra Rieti e Terni”.
Verdone, l’innamorato tradito
Della sua città, che tanto ha raccontato, e così bene, parla sempre più come un innamorato tradito. Ma può farlo solo lui che al cinema continua a disegnarla con poesia e dolcezza. “Sento il diritto e il dovere di restituire questa città alla sua bellezza, anche per le generazioni che non la conoscono come l’ho vissuta io. Ecco perché, per quanto possibile, rimetto a posto gli angoli che riprendo nei film, tolgo erbacce, pulisco tutto, do mani di stucco e vernice, cancello lo squallore di chi con uno spray urla uno svogliato “sono qui” per dirsi che esiste. Cerco di fare delle belle inquadrature che lascino nella memoria storica e collettiva almeno una specie di cartolina, è vero, lo confesso”. Ne parla con la passione di chi prova a cambiare le cose ma poi rimane deluso “perché, dopo pochi giorni, è già di nuovo tutto come prima. Roma è diventata veramente simile a un cesso del peggiore autogrill d’Italia”.
Come uno di quelli dove si cambiava sul set di Un sacco bello, perché nel budget di 360 milioni di lire non era prevista la roulotte con il camerino. “Vedere la mia città in queste condizioni è un dolore enorme. Questi so’ quelli che escono la sera per camminare e imbrattare, non sono i miei coatti romantici, che erano dei fregnoni. Ora se ti ribelli a questa inciviltà capace che uno t’accoltella. La verità è che siamo lo specchio di un mondo sempre più cattivo e violento, mentre prima sapevamo esserne diversi. E io questo mondo non lo capisco più. Io il vero romano lo conosco, e mai avrebbe ridotto la sua città così”.
La casa sopra i portici
Lo dice lui, che dal luogo in cui vive ora, da un terrazzo magnifico, può vedere la famosa casa sopra i portici, l’abitazione dove ha trascorso l’infanzia e la gioventù con i genitori, celebrata dall’autobiografia tenera e struggente che ha scritto per Bompiani. “La guardo meno spesso di quanto vorrei. Ma d’inverno, d’autunno, quando cadono le foglie dei platani e mi danno una visuale ancora più nitida, faccio la mia passeggiata con gli occhi fino a lì, al palazzo dei Cento Preti. E sorrido, ma mi viene anche una grande malinconia: penso a quant’era bello il nostro appartamento, che bella famiglia che ho avuto, che bel clima che si viveva tra quelle mura. Ci conoscevamo tutti, era un piccolo splendido universo. E mi sembra ancora così vedendola dall’alto e da lontano, bellissima, immutata. Poi però scendi nel dettaglio, i marciapiedi, i muri, le strade, la cattiva manutenzione che sta distruggendo questo posto meraviglioso invece di salvarlo. Anche gli alberi non sono più gli stessi, troppo spesso malati, e il clima: hai 40 gradi a novembre, ma come si fa. Ed è colpa nostra, che non abbiamo rispettato il pianeta. Qui a Roma ci si sono messi pure i palazzinari, quell’edilizia orrenda degli anni ’60 che ha tirato su palazzoni che ci hanno tolto pure il ponentino. Un’edilizia mascalzona e predatoria”.
Non si salva neanche Monteverde Vecchio, dove Verdone si è stabilito e ha provato a cercare la Roma che ama. “Macché, qui i piani urbanistici non sono mai esistiti, vedi l’edilizia anni ’30 vicino a quella anni ’60 mischiata ai palazzetti Liberty, nessun rispetto per l’estetica e l’armonia e questo è un quartiere storico, risorgimentale, pieno di artisti tuttora. Io la amo tanto Roma, ma ora, lo confesso, non vedo l’ora di fuggire da lei, ogni weekend”. Ma poi torna sempre, perché Roma pure quando è matrigna, non la puoi lasciare. Un amore tossico, forse, ma eterno finché dura.
“In quel film, peraltro – L’amore è eterno finché dura – sono riuscito a raccontare la Roma più borghese, da Piazza Esedra e il suo caffè sotto i portici all’Arco di Costantino, il Foro Romano, l’appartamento a Via Panama. Poi anche lì però tornavo però dove mi interessava di più, nelle arterie vere e veraci di questa città”. Che ha percorso tutta, con la macchina da presa. “Sono 45 anni che faccio cinema e devo essere sincero, dove ho desiderato girare mi hanno sempre aperto le porte”. E dopo la terza stagione di Vita da Carlo, set che aprirà a novembre, tornerà il cinema, il grande schermo. E magari si fermerà in un quartiere che ha solo sfiorato. “La Garbatella, a cui ho dedicato solo due inquadrature in Grande, Grosso e Verdone. È un luogo storico, importante, che potrebbe ispirarmi, pieno di pittori, attori, racconti e vite straordinarie. Ma devo ancora capire quale progetto svilupperò, per ora il prossimo film è un ammasso di appunti, potrebbe essere un on the road che tocca Roma ma anche altre città e regioni”.
Il rapporto con Sorrentino
Di Roma, in fondo, è stato il Virgilio dimesso e frustrato – ma forse l’unico personaggio genuino e coraggioso, a modo suo – de La grande bellezza e di Paolo Sorrentino. L’unico amico e intellettuale che in fondo Jep Gambardella rispetta. Un atto d’amore “reciproco” quello di Carlo Verdone per il cineasta premio Oscar. “A Paolo non devi suggerire niente, anche se molti pensano che io possa averlo fatto. Anzi a lui devo un’esperienza speciale. Nell’ultima scena con Toni Servillo, in cui gli dico ‘torno a Nepi, questa città mi ha deluso’, che arriva dopo quella in cui appariva e scompariva la giraffa, mentre attendevo il ciak, mi sono fatto una lunga passeggiata. Da solo, nelle Terme di Caracalla illuminate da quelle luci belle, cinematografiche, e mi sono emozionato. Per venti minuti, mezzora, ho sentito addosso la vera Roma, sotto quegli archi immensi ho respirato la potenza e la magnificenza di questa città. Che te devo di’, a Paolo lo posso solo ringraziare. Come romano, perché ha scelto tutto ciò che era giusto mostrare e per quei minuti unici, irripetibili”.
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