Giona Antonio Nazzaro è il direttore artistico del 76esimo Locarno Film Festival, il terzo per lui in questa posizione. A lui è toccato traghettare l’evento oltre la pandemia, dopo l’interregno molto discusso di Lili Hinstin, interrottosi bruscamente a settembre del 2020. Lo ha fatto dopo essere stato per un decennio una delle colonne portanti della rassegna, tra i volti più frequenti nella conduzione delle conferenze stampa. Probabilmente quest’ultima è l’edizione che più gli somiglia, senza le angosce del 2021, il peso del giubileo del 2022 e un 2023 che, proprio in dirittura d’arrivo, lo ha visto confrontarsi “contro” gli “Hollywood Strikes”, gli scioperi, che gli hanno sottratto pezzi di programma – da Riz Ahmed a Cate Blanchett. Ma il bilancio, alla fine di questi dieci giorni, è evidentemente positivo.
Poche ore prima del palmares, Giona Nazzaro è felice di questo terzo festival da direttore artistico?
Non si può ancora fare un bilancio ufficiale, ma quello “intuitivo” è estremamente positivo. Secondo le proiezioni statistiche ci siamo attestati su un 20% di pubblico in più rispetto all’anno scorso, edizione già in ripresa sul 2021 e 2019. Ma nel 2019 c’erano una sezione ulteriore e cinque film in più nel fuori concorso: ora l’offerta si è ridotta in quantità per privilegiare la qualità. Ho voluto un programma meno dispersivo. Trovo quindi che possiamo parlare di risultati molto positivi, che rilevo quando vedo il FEVI (la sala al coperto più grande del festival, ndr), il vero termometro del festival, sold out. Così come i Q&A post proiezione affollati e partecipati oltre ogni più rosea previsione, o la Piazza Grande sempre piena, o i film di Cineasti del Presente più seguiti che mai.
Com’è stato reinventarsi l’idea stessa del festival dopo il Covid?
Non c’era tanto da reinventare, quanto da ribadire. Spingere la gente a tornare, e in questo siamo fortunati perché abbiamo un popolo educato alla cultura, alla partecipazione, che sente il Locarno Film Festival come parte di sé. Ma la paura del vicino, dell’evento di massa, è qualcosa con cui abbiamo convissuto a lungo.
Lei è il primo direttore da un quarto di secolo a vivere un momento epocale, il cambio del presidente: Marco Solari, che ha reso il Locarno Film Festival un evento di cinema di caratura mondiale, se ne va. Si sente già orfano?
Vivo questo evento epocale in modo stratificato. C’è il lato affettivo: voglio bene al presidente e amo i momenti in cui stiamo insieme, parliamo e ci confrontiamo. E non parlo solo di questi tre anni di direzione. Sono qui da 13 anni, è problematico raccontare in poche parole l’importanza emotiva di un rapporto così. Il secondo livello è quello professionale: la sua fermezza nel gestire il festival attraverso le intemperie politiche, economiche, le complessità culturali, persino superando una pandemia, spingendolo sempre avanti, è qualcosa di straordinario. A memoria non riesco a immaginare qualcuno che abbia fatto il suo lavoro meglio. E quindi ho una grande ammirazione per lui. Infine è straordinario il modo con cui ha gestito la sua successione, come ne ha mostrato, con limpida trasparenza, ogni passaggio, informando sempre il cda. Più alto è il ruolo pubblico, più sono le responsabilità. E lui le ha sostenute tutte alla perfezione, divenendo il garante di un processo delicatissimo.
E così si è arrivati alla designazione di Maja Hoffmann (prima donna presidente di Locarno, ndr).
È una scelta di altissimo profilo. Ti dà la consapevolezza che Locarno deve crescere ancora, e questo non può che avvenire su un piano di assoluto prestigio internazionale, di visionarietà imprenditoriale.
Vi siete già incontrati? Avete parlato del futuro?
Un paio di volte. Maja Hoffmann è una persona molto pragmatica. Mi ha salutato e mi ha detto “intanto lei si preoccupi di fare un eccellente festival, poi vedremo”.
Locarno in questi anni ha dimostrato di avere un’identità precisa. Probabilmente anche per questo il suo pubblico l’ha protetto. Il segreto nel dirigerlo è portare novità senza tradirlo?
Locarno è composto da vari pubblici, non tutti ugualmente numerosi. Quello della piazza e quello delle retrospettive (quest’anno una delle migliori: il cinema messicano pop-trash ha conquistato tutti, La mujer murciélago è stata il guilty pleasure del festival, ndr), dei cortometraggi e del cinema d’autore duro e puro. La mia ambizione, banalmente e spericolatamente, è sempre stata quella di mettere in dialogo tutte queste anime, di far sì che si contaminassero e fossero incuriosite le une dalle altre, che non si pensasse a noi, che siamo orgogliosamente “la capitale mondiale del cinema d’autore” solo come un luogo in cui vedere lavori iper sperimentali, ambiziosi e severi. Non solo almeno. Se guardo il concorso internazionale, vedo Williams, Georges e Jude ma anche Lousy Carter o Rossosperanza, uno spettro quasi completo di ciò che può offrire il cinema in questi anni nel mondo. Amo il nostro essere rigorosi nelle passioni. Senza distinzioni di generi, cinematografici e non. Penso a Mimì – Il principe delle tenebre di Brando De Sica: è a tutti gli effetti un film d’autore ambientato nella Campania orfana dell’Italsider, con la classe operaia che scompare e i fantasmi di quelli che avrebbero potuto essere i loro eredi. Come diceva Marx, al loro posto ecco i mostri dell’incosciente. E lì si incrociano il neorealismo, il cinema fantastico, la riflessione politica.
Dei tre firmati, questo è il programma in cui si riconosce di più?
Sì, c’è una linea editoriale. Ma rispondo raccontando del palmares dell’anno scorso: l’ho guardato e mi ha stupito come ogni anima del comitato di selezione fosse rappresentato. Il segno di un lavoro collettivo che nasce dalla mia scelta di non volere doppioni o yes man in commissione, ma persone valide con idee precise. Questo porta a un lavoro più complesso. I confronti sono molto forti, spesso si entra in conflitto, ma quando arriva il pubblico capisci che quelle ore passate a discutere hanno avuto un senso. Quella collegialità ha fatto sì che più spettatori si riconoscessero nelle tue, nostre scelte.
Questi anni hanno detto qualcosa di definitivo sull’importanza dei festival?
Sì, per lo stesso motivo per cui i supporti fisici musicali soffrono, ma i Depeche Mode e Taylor Swift riempiono qualsiasi spazio alla velocità della luce. Ci sono luoghi in cui l’evento è più evento, e in questi anni così difficili il festival è più cinema della sala.
Perché c’è un’intera città, che si trasforma: il punto forte di Locarno. Perché c’è un tappeto rosso da urlo e una line up spaventosa, come a Cannes; perché c’è una città meravigliosa, come a Venezia. Poi io lo confesso, sono affezionato alle sale brutte che ho conosciuto da ragazzino, nelle quali si fumava: tanto male non dovevano essere visto che hanno formato un’intera generazione di cinefili. Però oggi la sala deve tornare a essere evento: ci siamo chiesti perché se dai la possibilità di vedere Barbie in lingua originale, le sale si riempiono in ogni ordine di posti? Probabilmente perché ci sono intere generazioni che già li vedono così, i film e le serie tv?
Chiudiamo su ciò da cui siamo partiti. Locarno deve migliorare ancora. In cosa e come?
Intanto perché un festival che rimane fermo, come dice Marco Solari, è un festival che tradisce la sua missione. Chi si ferma è perduto. Io sono convinto che la strada del futuro sia abbinare la sostenibilità all’essere attraenti, non l’espansione geografica o il gigantismo oltre le possibilità strutturali. La crescita in sé, quantitativa e di dimensioni, non è un valore, lo è quando è qualitativa. Abbiamo una responsabilità verso il nostro territorio, il Ticino e la Svizzera: rafforzare il festival per avere una voce udibile a livello internazionale, essere sempre più credibili in un’industria cinematografica che sta facendo, da tempo, questo stesso tipo di riflessioni. Ed espanderci come mercato: non tanto per quanto riguarda le vendite – non siamo Cannes – ma diventare la piazza in cui viene mostrato ciò che altrove non trova spazio. In cui si creino connessioni, opportunità, possibilità, articolazioni.
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