Taranto è la città industriale con l’acciaieria più grande d’Europa. Edificata nel 1961, ha portato più drammi che soluzioni ai cittadini del sud Italia. Se da una parte ha favorito l’occupazione, di contro è stata causa diretta di un numero spropositato di cancri e leucemie, oggi ancora in crescita, anche tra i bambini. La storia di Giorgio Di Ponzio, morto a quindici anni e immortalato in un murales al centro della città pugliese, lo ricorda ogni giorno. Eppure i più piccoli non hanno perso la spensieratezza.
Li racconta liberi e incoscienti, nella loro profonda tenerezza, il pugliese Giulio Mastromauro, 40 anni, al debutto col documentario Bangarang presentato in anteprima nella sezione Panorama Italia di Alice nella città: un titolo curioso, che prende in prestito l’urlo dei bimbi sperduti di Steven Spielberg in Hook – Capitano Uncino (1991).
I bambini hanno capito perché stava girando il documentario?
I bambini sono sempre rimasti spensierati. Sono violenti, arroganti, simpatici. Il concetto stesso di inquinamento, e dell’avere una fabbrica dentro casa, non gli era molto chiaro. Spesso la loro opinione era viziata da quella degli adulti, dei genitori. Io ho osservato la città e i suoi abitanti senza moralismo, e la città e i suoi abitanti hanno fatto lo stesso con me. Si è instaurato un rapporto sincero. Non volevo fare un documentario sul disastro ambientale, o una pellicola che fosse politica o di inchiesta. Ma è inevitabile che il mio sguardo fosse sempre rivolto all’acciaieria. Dal vivo succede la stessa cosa: se sei a Taranto, non puoi non vederla.
Che sia un senso di autoconservazione a proteggere i bambini?
Nonostante abitino accanto all’acciaieria più grande d’Europa, i bambini sono i più positivi e energici che abbia mai incontrato. Hanno la stessa forza della natura che li circonda. È disarmante. Come anche gli animali, in Bangarang: tengono duro in ecosistemi disastrati.
La città con l’acciaieria, la natura che cerca il suo posto. Anche la chiesa è un luogo che torna spesso in Bangarang. Come mai?
In alcuni territori del sud Italia o della piccola provincia, la chiesa è un baluardo in termini educativi e sociali. Ci sono persone che hanno bisogno di aiuto e bambini che vivono in contesti sfortunati. Le attività delle chiese diventano opportunità importanti. I più piccoli non vivono la spiritualità del luogo, non sentono la “presenza” religiosa, ma solo gioco e spensieratezza in un luogo dalle porte sempre aperte. Situazioni protette in cui possono esprimere se stessi. La chiesa diventa un parco giochi. Nel documentario a un certo punto ci entra anche un cane. Non c’è nulla di premeditato, è tutto illogico, come la sorpresa e il tempo libero dei bambini.
Come si è “connesso” alla quotidianità dei bambini?
Io stesso sono un bambinone, entro subito in sintonia con i più piccoli e so rompere il muro che separa le persone quando ancora non si conoscono. Il resto lo ha fatto il tempo. Mi è stato amico nello sviluppo del progetto, accompagnandomi nell’osservazione della quotidianità dei bambini, della loro comunità, del loro rapporto con l’amore, la vita, la famiglia. Inquadrandoli ho scoperto quanto siano profondi, pieni di una sensibilità di cui forse non sono consapevoli.
Come li ha abituati alla telecamera?
Ho cercato di essere delicato, mai invasivo. Gli ho mostrato come funzionava e spiegato che non dovevano temerla. Dopo un po’ sono riusciti a entrarci in sintonia. Il fatto che fossimo una piccola troupe ha contribuito a creare intimità.
A volte fanno i capricci. Anche con lei?
No, ma non significa che non sia stato difficile girare il film. Quando si ripensa al passato è normale che i primi pensieri che emergano siano quelli più allegri e spensierati, ma ho vacillato spesso durante Bangarang. Bisognava superare il contrasto continuo tra la bellezza del luogo e il deterioramento causato dall’acciaieria, e ho sentito un enorme sconforto quando ho capito che erano inconsapevoli di vivere in un territorio pericoloso. In quei momenti ho provato molto dolore.
Peter Pan torna spesso nel suo documentario. Perché cita il romanzo di J. M. Barrie?
Perché volevo fare un film sull’infanzia. Volevo realizzare un’opera che avesse esclusivamente la voce dei bambini. Il primo dogma, quando si sceglie questa strada, è escludere totalmente gli adulti. Ho lasciato che il territorio del racconto fosse abitato solamente dai più piccoli. Come fosse la loro personale “Isola che non c’è”, quella in cui chi non è bambino è un pirata.
Anche il titolo si riferisce al bambino che non voleva crescere?
Bangarang ha due significati. Il primo è legato al tema della resistenza, del sopravvivere in luoghi in cui è complesso riuscire a farcela. È una parola che deriva dal dialetto giamaicano e che vuol dire “fare casino”, “fare rumore”, che è ciò che fanno i bambini in una città che non funziona. Ma è anche l’urlo dei bimbi sperduti nel film Hook di Steven Spielberg, che parla proprio di Peter Pan.
Chiude Bangarang con l’immagine di un murales. Qual è la sua storia e perché ci si sofferma ben oltre i titoli di coda?
Ho detto all’inizio che volevo raccontare l’infanzia perché è un momento della vita che ha sempre acceso in me curiosità e stupore. Il mio approccio è cambiato quando mi sono trovato di fronte al murales di Giorgio Di Ponzio, morto a causa di un cancro all’età di quindici anni. È il simbolo di una città che vuole resistere. La prima volta sono rimasto a guardarlo per ore. La storia di quel ragazzo ha cambiato la direzione del documentario e, forse, anche qualcosa dentro di me. L’incontro con Giorgio ha dato a Bangarang una lettura più profonda. Come dicevo, non ho mai voluto fare un’opera politica. Ma non ho mai avuto nemmeno dubbi sul fatto che il documentario dovesse chiudersi sul murales: è il filo rosso che unisce la narrazione.
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