“Avevo capito che era un altro orario. Sono in macchina ma non guido io. E quindi va da dio”. Dall’altra parte della cornetta, con il suo inconfondibile accento livornese, Edoardo Gabbriellini, regista di Holiday – in sala il 23, 24 e 25 ottobre con Europictures – presentato in concorso nella sezione Progressive della Festa del Cinema di Roma dopo il passaggio, lo scorso settembre, al Toronto International Film Festival. Terzo lungometraggio, dopo B.B. e il Cormorano e Padroni di casa, in cui racconta la storia di una ragazza, Veronica (l’esordiente Margherita Corradi) che, dopo un lungo processo e due anni di prigione per l’omicidio della madre e del suo amante, viene riconosciuta innocente.
Ha vent’anni, un futuro di possibilità ma la consapevolezza che quell’evento ha cambiato la traiettoria della sua vita. Il regista livornese – che il 30 ottobre presenterà il film nel corso del edizione del FIPILI Horror Festival – ne riavvolge la storia, che più avanza, più si fa ambigua, attraverso i ricordi suoi e quelli della sua migliore amica Giada (Giorgia Frank). “Nel film pongo solo domande. Le stesse che mi faccio io” afferma a THR Roma.
Prima della Festa del Cinema, il suo film è stato presentato in concorso ufficiale al TIFF. Com’è andata?
Sono stato lì con Margherita. È stato frenetico perché siamo stati per i tre giorni di proiezioni. Quello di Toronto è un festival per il mercato e per il pubblico. Ci sono due blocchi di strade e due multisale. Sono state giornate intense di Q&A. È stato molto bello, soprattutto vederlo negli occhi di Margherita. Un’attrice non professionista che si è trovata sbalzata in un posto dove al secondo giorno già la fermavano per strada chiedendogli una fotografia. L’accoglienza è stata molto calda devo ammettere.
Come crede che il film sia stato accolto dal pubblico oltreoceano?
Nella stragrande maggioranza, anche se poi ovviamente ho una visione parziale, hanno colto quello che per me è il film. Che il thriller fosse una cornice e il film raccontasse un po’ un’età, l’adolescenza, e una fase di passaggio. E che la storia di queste due ragazze fosse uno studio di carattere ancora prima che un thriller.
L’attrice protagonista, Margherita Corradi, l’ha scelta un po’ come Paolo Virzì scelse lei per Ovosodo.
L’abbiamo individuata dopo un lungo percorso di casting. A quel punto mi sembrava naturale andare un po’ a spulciare, come si fa oggi, sui social. A delle sue amiche ho chiesto di portarla al call back e di venire con chi di loro era disposta e curiosa di una potenziale esperienza come questa. Da lì abbiamo scelto Giorgia. Ovviamente essendo amiche da tanti anni hanno regalato molto al film rispetto al rapporto fra i due personaggi. Hanno dato verità.
Il loro rapporto ha cambiato il modo in cui aveva immaginato le loro interazioni sullo schermo?
Non credo lo abbia cambiato strutturalmente ma formalmente. Loro hanno una fisicità, un modo di toccarsi. Non é che non lo prevedessi, ma così tanto me l’hanno regalato loro. Gli veniva naturale. Erano a loro agio nel ricreare quel rapporto. Come lo scambio delle sigarette che si ripete nel film. È una cosa che hanno dato loro ai personaggi.
È consapevole di aver realizzato un film dal respiro internazionale?
No, lo prendo come un bellissimo complimento. L’idea era di fare un film profondamente italiano. Quella che vediamo nel film è casa nostra con quelle dinamiche familiari, l’estate della fine della scuola, dei primi baci. È una cosa che, in qualche modo, attinge culturalmente almeno dalla mia di adolescenza e giovinezza. Credo che oggi più che mai il cinema parli al cinema in termini linguistici. Quindi forse i film ai quali, più o meno consapevolmente, guardavo, pensavo e usavo per mettere in scena questa storia, erano titoli non necessariamente ed esclusivamente italiani. Penso a un certo tipo di cinema francese, ad esempio.
Come la sequenza iniziale con i suoi colori brillanti e accompagnata da una musica che dona al film un’atmosfera passata. Com’è nata?
Tranne nella sequenza iniziale e sul finale non esiste musica extradiegetica. Il resto esce dalla radio, dalle canzoni che sono tipiche del momento e plausibili. Quella iniziale era una scelta, come una specie di introduzione in qualche modo letteraria e quasi casuale. Sia a me che a Walter Fasano (il montatore, ndr), ci risuonava un’aria di Antonio Carlos Jobim di un film degli anni Settanta, Cronica da casa assassinada. Abbiamo provato ad abbinarla alla sequenza e magicamente si è sposata immediatamente. Serviva un’introduzione letteraria per poi entrare dentro a un film che fosse vicino ai caratteri, in maniera anche brutale delle volte, e non ci fosse bisogno più di quella sublimazione.
Perché ha scelto la Liguria come sfondo di questa storia?
È stata una scelta strutturale al racconto. Volevo l’estate e una località di mare. E la Liguria secondo me incarna perfettamente quel tipo di apertura, soprattutto in quella stagione. Quell’idea mediterranea anche di una quiete in qualche modo interrotta dalle montagne che dietro incombono minacciose. Portava di per sé la scenografia perfetta per questo racconto, con la dualità insita nella storia. Da una parte le spiagge affollate, i colori, gli ombrelloni e dietro questa cosa che sembra spingere in avanti.
In Holiday immagini filmate con i telefonini, riprese delle telecamere di sicurezza, videochiamate si susseguono a movimenti di macchina raffinati, zoom, macchina a mano. Come ha lavorato su questa molteplicità di linguaggi?
C’è stato uno studio con il direttore della fotografia, Amine Messasi. La parola d’ordine era semplicità. Anche perché, produttivamente era un film che dovevamo girare in un tempo abbastanza ridotto. E questo chiama la ricerca di soluzioni artistiche e linguistiche di un certo tipo. Però di base per me l’impostazione era stare ad altezza ragazze e curare l’immagine di come loro interagiscono, ancora prima che nella storia in sé, negli ambienti che occupano. Riuscire a provare a contaminare l’uso dei telefonini, però sempre come una delicata punteggiatura sul testo. Anche perché io non ho quell’età lì e devo traslare la mia visione di come oggi si usano i social.
Il personaggio di Veronica prova un senso di inadeguatezza fisica molto forte. Ma quello che racconta è un sentimento universale.
Me ne sono accorto dopo, ma nel film c’è un rimprovero alla mia generazione che ha apparecchiato un mondo un po’ difficile da decodificare per quelle successive. Un mondo dove, come per i quarantacinque/cinquantenni del film, è faticoso accettare di diventare adulti. Veronica per un motivo, la madre perché legata a un canone di bellezza che si deve rispettare e il padre che è una specie di adolescente con una visione del sé che spesso non riesce a contemplare l’altro. Neanche la figlia. In più l’ossessione per l’aspetto fisico ce l’abbiamo tutti. Anche quelli che pensano di no, perché siamo talmente culturalmente corrotti che da quel punto di vista è impossibile non esserlo.
Nel film ci sono molti corpi nudi. Perché?
Nello specifico perché è uno dei temi del film e poi mi aiutava la stagione. E non intendo solo la stagione dell’anno ma anche quella della vita in cui il corpo, anche per come ci si tocca, come ci si guarda, come ci si muove nello spazio, è la ricerca di una forma adeguata. Mi sembrava fondamentale metterlo in scena e provare a guardarlo in quel modo. Sempre cercando una forma di discrezione.
Tra ogni sua regia, B.B. e il Cormorano, Padroni di casa e Holiday, sono passati molti anni. Come mai?
Potrei dire che è un concorso di colpe. Dove però metto al centro una mia lentezza, una mia pigrizia e un mio atteggiamento un po’ messicano, come qualcuno mi dice (ride, ndr). Infatti Luca (Guadagnino, ndr) mi sprona, adesso più che mai, a non far passare così tanto tempo.
Con Guadagnino aveva già lavorato in Io sono l’amore e We Are Who We Are. È stato coinvolto nella produzione fin dall’inizio?
Non da subito. Avevo incontrato Olivia Musini e abbiamo cominciato a parlare del film e del suo sviluppo. Poi, sempre per un legame che oltre che professionale è intimo e personale, ho naturalmente condiviso con lui il copione. E altrettanto naturalmente ci siamo detti quasi all’unisono: “Ma scusa, collaboriamo?”. Dal punto di vista produttivo c’è stata assoluta carta bianca. È un regista che stimo, un amico, un produttore attento e c’è stato più di un confronto nell’evolversi della storia, dal soggetto alla sceneggiatura. Primo fra tutti, per esempio, quello di far diventare l’albergo anche l’abitazione dalla protagonista per la quale, a parte la parentesi del carcere, simboleggia la sua gabbia. E quindi trasformarlo nel corpo centrale dell’ambientazione, non solo scenografica ma emotiva per i personaggi.
Il suo è un film di domande. Ma cosa vuole che arrivi al pubblico?
La sensazione dell’innocenza. Che tu possa essere stato capace di avvicinarti a un personaggio come quello di Veronica e, in qualche modo, costretto dal film e da Veronica stessa a dover sospendere il giudizio assoluto. Anche nello scoprire se è un’omicida. E porti le domande del perché e per come possono accadere certe cose. Perché non si parla di un mostro. Non è non è un romanzo tratto da un fatto di cronaca.
Il coinvolgimento di Margherita è simile a quello che ha vissuto lei con Ovosodo. Le ha dato dei consigli?
Nì, direi. A parte che lei è molto più consapevole e solida del me ventunenne quando feci il film con Paolo Virzì. Credo che siano tempi diversi anche proprio per come viene percepito il cinema rispetto a trent’anni fa. Abbiamo parlato di un po’ di cose, però poi sentivo che il consiglio che ti può dare un quasi cinquantenne oggi è: “Vivitela e vedi cosa succede.” Lei in questo momento sta studiando e si lascia giustamente aperta la possibilità. Credo abbia fatto una performance eccezionale. È anche bravissima a scrivere. Potrebbe entrare nel mondo del cinema in vari modi.
Lei è diventato attore per caso ma regista per scelta. Come ha capito che era questa la sua vocazione?
L’unica coincidenza è che sono sempre stato un amante del cinema. Fino a quando avevo più o meno 9 anni andavo al cinema la domenica a Livorno con un’amica di famiglia. Quando finiva lo spettacolo delle 15 schizzavamo via per andare in un’altra sala a vedere quello delle 18. In sala ci sono sempre stato quasi a prescindere dal film in sé. Poi, durante il primo anno e mezzo di università, frequentavo un centro sociale dove con un amico avevamo preso delle Super8 e facevamo delle installazioni. La mia vicinanza al cinema e al lavoro del cinema è stata questa.
Ma non avevo nessuna intenzione chiara. L’incontro con Virzì evidentemente ha dirottato tutto perché sul set notavo di divertirmi particolarmente ma non quanto si divertiva quel signore dietro la macchina da presa. Da lì è partito, forse in maniera timida all’inizio, il pensiero di poterlo fare. Oltre al fatto di sentirmi sempre meno a mio agio davanti alla macchina da presa. Infatti ho fatto pochissimo dopo. Poi ovviamente l’incontro con Luca e l’esperienza di Io sono l’amore con l’incontro con Tilda Swinton è stato il secondo vero lampo, l’epifania. Ma era una situazione dove c’era una stima reciproca. Condividevamo un’idea di cinema nella diversità di approcci. E quindi mi sentivo molto protetto.
Ha parlato di dirottamento. Se l’è mai chiesto che cosa avrebbe fatto se non ci fosse stato quell’incontro con Virzì?
No, perché potrei far preoccupare mia mamma (ride, ndr).
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