Certi film sembrano fatti di nulla e invece dentro c’è tutto, l’amore e il vuoto, il desiderio e lo scacco, il tempo che fugge e la nostra eterna rincorsa. Il cielo brucia del tedesco Christian Petzold, classe 1960, ex-critico e già autore di film molto diversi e spesso spericolati (Il segreto del suo volto, La donna dello scrittore, Undine), appartiene a questa categoria di film “metereologici”, molto spesso estivi, che scolpiscono a colpi di immagini strappate alla Natura i nostri più contraddittori paesaggi interiori. Dando nuova linfa anche ai personaggi, questa vecchia figura ereditata dal teatro e dal romanzo che tanto cinema oggi usa in modo distratto o convenzionale. Non a caso il regista, che con Il cielo brucia ha vinto l’Orso d’argento all’ultima Berlinale, non perde occasione di ricordare l’estrema libertà concessa ai suoi straordinari attori e la generosità con cui lo hanno ripagato.
Prima dei personaggi però vengono i luoghi, come ben sapeva Eric Rohmer, maestro assoluto di questo genere di film, apertamente evocato dallo stesso Petzold. Ed eccoci in una luminosa casa circondata dai boschi, poco lontano dal Mar Baltico. Qui arrivano i giovani Felix e Leon (Langston Uibel e Thomas Schubert), il figlio artista della padrona di casa e il suo amico scrittore, per trascorrere qualche giorno di riposo e lavoro. Felix deve preparare un portfolio. Leon invece cerca la calma e la concentrazione per ultimare un romanzo. L’estate è rovente. Il cielo a volte avvampa per gli incendi in lontananza. La quiete del bosco ogni tanto è spezzata da versi e rumori sinistri. Per il momento però l’unica incognita di quella bella casa nella radura sembra essere un’amica della madre, Nadja (Paula Beer), che resta a lungo invisibile anche se la notte fa parecchio rumore al di là della parete…
La scoperta di Nadja, che di giorno vende gelati in spiaggia, e del suo amante (Enno Trebs), un bagnino sfacciato e prestante fino alla caricatura di nome Devid, con la “e” (una volta lì era Germania Est, ridacchiano Felix e Leon), sembra portare Petzold dalle parti del Pasolini di Teorema, ma è solo un momento. Presto infatti tutto si concentra sul malmostoso Leon, che si sente sempre più solo e incompreso, e sulla mercuriale Nadja, molto incuriosita (e forse non solo) da quel ragazzone ombroso e pieno di qualità che però non ne azzecca una. Sabotando con le sue fisime da un lato ogni possibile sviluppo nei rapporti con Nadja, mentre dall’altro non sembra fare grandi progressi neanche nella scrittura.
Fino a quando, tra occasioni mancate e equivoci crudeli, il mondo, sempre così vario e imprevedibile, quel mondo esterno che Leon non sembra più capace di vedere, tutto preso com’è dal suo Ego ingombrante e ferito, non rimescola di nuovo le carte. In un crescendo inatteso che porta bruscamente il film su tutt’altri registri. Il postino bussa alla porta, non una ma due volte. Il dolore e la finitezza vengono a reclamare i loro diritti, e il loro rapporto con la creazione, mentre le tragedie di ieri si sommano a quelle di oggi (qualcuno penserà a Viaggio in Italia di Rossellini).
E sulle velleità dell’aspirante scrittore si allunga nientemeno che l’ombra di Heinrich Heine, evocato da Nadja e dall’editore di Leon (Matthias Brandt) in una conversazione che testimonia il potere definitivo dell’arte e fornisce la chiave di tutto il film (che meraviglia, e che faccia tosta, quella poesia, L’Asra, declamata addirittura due volte).
Ciò che fino a quel momento avveniva per così dire in diretta, sotto i nostri occhi, diventa esperienza, ricordo, racconto. La parola (Leon) sembra prendere il potere sulle immagini, dar loro un senso, farle sue. Ma è solo un attimo. L’immagine, la vita inesauribile e inafferrabile, insomma Nadja, è ancora lì che ci guarda, beffarda.
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