“Nel pezzo di terra dove sono nato e cresciuto non c’è niente di importante da vedere e da ricordare, niente che possa essere considerato degno di finire sui libri. Una sorta di ‘invelle’, un non luogo da cui la Storia con la maiuscola ha preso e preteso tutto quello che voleva e poteva. In cambio abbiamo avuto le storie con la minuscola, quelle che o le tramandi a voce oppure si perdono”.
Così Simone Massi commenta il suo primo lungo, che si chiama appunto Invelle, cioè “da nessuna parte” in dialetto marchigiano, ma naturalmente non è vero niente. In quel “non luogo” sulle colline marchigiane ci sono universi interi da riportare in vita. Il problema è come farlo e la risposta è semplice e complicata insieme. Perché Massi fa animazione ma appartiene alla linea dei Pasolini, dei Paradzanov, dei Terence Davies. Fa cinema per salvare il mondo, o almeno il suo mondo, che poi è anche il nostro, perfino se non lo sappiamo. E lo fa disegnando, anzi incidendo a mano una per una (con un plotone di collaboratori) immagini lavoratissime che poi filma e monta una dentro l’altra.
Nel movimento incessante di Invelle, infatti, ogni cosa ne contiene altre, ogni spazio genera altri spazi, ogni tempo si porta dentro quello che è venuto prima e quello che sarà dopo, basta andarlo a cercare, dargli forma, senso, respiro. Tanto che la figura ricorrente del suo cinema è la bocca, di cane o di bimba poco importa, l’orifizio che conduce verso altri mondi, il passaggio segreto verso una logica cosmica e insieme umile, mistica ma sempre profondamente terrena, sovraindividuale ma attenta a captare ogni battito, ogni sensazione, ogni ricordo personale.
Si comincia ai tempi della Grande Guerra, si prosegue col fascismo e i suoi squallori, ci si ferma alla fine degli anni ’70, col rapimento Moro e con la rabbia di un bambino che si chiama Icaro ma forse è il piccolo Massi, “un bambino contadino che gira in tondo attorno al niente”, un figlio “sognato tanti anni prima”, dunque “condannato a fare quello che non è stato possibile per sua madre e sua nonna”. Perché quella dell’Italia è una storia di occasioni mancate, di speranze tradite, di slanci in avanti sempre travolti da violenti balzi all’indietro.
Così, mentre il bianco e nero di Massi si tinge a tratti di rosso, di giallo, di blu, e sembra di non aver mai visto quei colori, tra le voci dei tanti attori che hanno partecipato al film (Baliani, Celestini, Lo Cascio, Marcorè, Servillo, Timi, molti altri) si insinua in lontananza il rumore della Grande Storia, la bomba di Piazza della Loggia, il rapimento Moro, echeggia la voce di Nuto Revelli e di altri testimoni eccellenti. Ma sempre dotati di uno sguardo dal basso, materico, corporale, perché quella è la dimensione che lega tutti i personaggi di Invelle. La madre che si ammala, la bambina che cresce, il contadino che si prende a cuore l’educazione dei figli (“Ma i padroni non son mai contenti quando studiamo”), il compaesano delatore che fa le soffiate ai tedeschi. In un alternarsi di momenti lirici e rivelazioni violente che convoca anche la voce di Mimmo Cuticchio, il grande cantastorie siciliano, e versi di Pavese e Garcia Lorca, per abbracciare in tutta la sua ampiezza la pulsazione di un secolo che non fu affatto breve.
Un lavoro monumentale, 40.000 fotogrammi, prodotto dopo molti anni di tentativi e ora finalmente pronto a uscire nelle sale. Anche grazie a un pugno di esercenti coraggiosi che gli hanno assegnato il Premio Lizzani e si impegnano a sostenerlo come merita con una programmazione mirata. C’è ancora speranza insomma.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma