Questa intervista a Jasmine Trinca è pubblicata nell’edizione cartacea di The Hollywood Reporter Roma, Numero 1, in cui i protagonisti della 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma raccontano la loro Roma e i loro luoghi del cuore. Jasmine Trinca è presente alla Festa del Cinema nella giuria del concorso Progressive Cinema, nella serie La Storia di Francesca Archibugi, nel film Nuovo Olimpo di Ferzan Ozpetek.
“Ma chi è? La più bella di Testaccio?”. Via Marmorata, Roma, metà pomeriggio. Jasmine Trinca posa davanti l’obiettivo. È in mezzo alla strada. Un’amica scherza da lontano. Lei scoppia a ridere. Sullo sfondo la punta della Piramide Cestia. Intorno un via vai di persone che salgono e scendono dagli autobus. L’attrice e regista qui è “nata e cresciuta”. “È il mio rione” ci dirà più tardi seduti ai tavolini di Giolitti. Davanti a noi un bicchiere di Campari, qualche patatina e una coppa di gelato che per la fine dell’intervista si sarà completamente sciolta. Nel 2022 per Jasmine Trinca è arrivato il debutto al lungometraggio con un film, Marcel!, ispirato alla sua infanzia indissolubilmente legata a Testaccio. Interprete di titoli in cui Roma è co-protagonista, da Romanzo Criminale a Fortunata, ora l’attrice presta voce e corpo a Ida ne La Storia, personaggio nato dalla penna di Elsa Morante adattato da Francesca Archibugi in una serie presentata alla Festa del Cinema.
Jasmine, la nipote della Sora Rosa, con un banco di pesce a Testaccio.
Nella famiglia di mio padre sono pescivendoli da una vita. Dal 1870 circa, i Trinca avevano un banco che prima si smontava e che, negli anni, è diventato fisso. Ora la tradizione è stata interrotta. Ma sono ancora la nipote della Sora Rosa. Ha 90 anni e catalizza l’attenzione. Una dimensione che mi diverte rispetto a quanto è diventata la mia vita. Ho sempre vissuto qui, davanti al cinema Greenwich, che era prima di tutto una sala parrocchiale. Ricordo quando nel 1992 fecero i lavori e proiettarono il primo film, Mac di John Turturro. Il mio punto di vista dalla finestra era quello di una bambina. Avevo 11 anni. È stato il primo incontro con un mondo che non mi apparteneva minimamente.
Voleva fare l’archeologa, poi è arrivato il cinema.
Mi sarebbe piaciuto diventare un’antichista, ma ho fallito. Stando a Roma, capito? Credo che questa passione venga dalle scuole elementari. Avevo un maestro che ci portava fuori. Ci ha fatto conoscere la città, appassionare alla storia e all’arte. Ma anche a tutto quello che è l’archeologia: il passaggio dell’uomo. Adesso Testaccio è percorso da una new wave, però rimane un quartiere operaio con una forte presenza di archeologia industriale, dal Mattatoio al Gazometro passando per la Centrale Montemartini.
Da La stanza del figlio in poi, il suo quartiere come l’ha accolta?
Penso che i posti abbiano una specie di spirito che rimane, così come il popolo. I romani hanno quella cosa lì che viene dall’antica Roma. Una modalità di sacro e profano insieme, di dissacrante. Il fatto di poter essere sempre ridimensionata in un senso buono è una forma affettuosa di accoglienza e appartenenza. A Testaccio ci sono delle persone che sono parte della mia vita, della mia crescita. Il loro sguardo su quello che faccio non è suggestionato dal cinema. Anche se a Roma ho dei cavalli di battaglia: Romanzo criminale, Fortunata e La meglio gioventù. La condivisione di quelle storie è l’unico modo importante per cui essere tenuti a cuore e considerati in questo senso.
In Fortunata interpretava una donna di Torpignattara. Un’eco di Anna Magnani. Ha temuto il confronto?
Per me i confronti, soprattutto con le persone che sono idee pure, delle infinite meraviglie, sono sempre proibiti. È chiaro che la storia porti un po’ lì. Ma più che grandi modelli di attrici per quel ruolo, essendo cresciuta in un contesto molto popolare, ho cercato riferimenti reali che conoscevo, che facevano parte della mia quotidianità e affettività.
Roma sa essere spietata.
È per tutti una città impegnativa, faticosa, capace di strappi e ingiustizie. E allo stesso tempo di aperture e attenzioni, di una grande umanità. Che però è affidata a pochi. Tutti i tentativi di sostenere il sociale o la cultura è come se fossero continuamente osteggiati.
I ricordi di Testaccio legati alla sua vita?
Ricordo l’infanzia, quando il tempo era invertito. Non erano i genitori che andavano dietro ai figli. Spesso venivo portata in giro da mia madre. Andavamo al Mattatoio, che all’epoca si chiamava la Vitellara. È un luogo del cuore per me. Era disabitato, portava una traccia di violenza. Però poi, quando è stato occupato e trasformato in una sorta di centro sociale diffuso, si è mostrato come grandissimo esempio di accoglienza e di possibilità di coesistere in maniera differente. Dal centro culturale curdo alla Casa della pace fino alla gente del quartiere che suonava in posti in cui, come mi racconta ancora mia nonna, un tempo c’erano le mucche. Il Mattatoio è l’esempio di come le trasformazioni possano arricchire.
Altri luoghi del cuore?
Il Monte dei Cocci. Mi fa impazzire l’idea di questa specie di monte sacro fatto dalla monnezza. La sintesi di cos’è questa città. E poi il Cimitero degli inglesi, un angolo di pace assoluta in mezzo ad anime e un po’ perché conserva un’autenticità originaria, era il posto che più sembrava rimandare a un piccolo villaggio. È stato un grande tradimento perché sono quartieri vicini, ma rivali.
L’espressione preferita di Pasolini in romano era “Anvedi”. La sua?
La cosa che più mi risuona è “A nì”. Il richiamo della bambina. È quello che sentivo quando giravo da sola da piccola.
Elsa Morante era di Testaccio come lei. Com’è stato dare voce e corpo alla protagonista de La Storia?
Lei viveva in quel palazzo (indica il civico 41 di via Amerigo Vespucci, ndr). Io, per un periodo, ho abitato di fronte. Ora vivo dove ha ambientato parte del romanzo. Mia figlia si chiama Elsa. È come se si specchiasse continuamente nella mia vita. È una presenza. Ma per niente protettrice. Interpretare Ida significa misurarsi con una figura immensa e temibile. Però penso sempre che è lo spirito ad aiutarci, è la giusta umiltà rispetto alla grandezza che salva.
L’artista di Roma a cui è più legata?
Gabriella Ferri, con quell’anima straziata però picaresca. Mi ricordo quando ho conosciuto Luisa De Santis sul set de La stanza del figlio. L’emozione di quell’incontro, di quella Roma. In maniera più diretta, Giovanna Ralli. L’ho incontrata per Marcel!. Anche lei è di Testaccio. Le facevo interpretare mia nonna. Sono dello stesso anno. È come se condividessero una traccia comune con due strade poi molto diverse. Una è diventata una grande attrice, l’altra ha lavorato al mercato. Però quell’anima lì di Roma, della famosa Mamma Roma, è tutto per me. Sia la mamma che la Roma (ride, ndr).
Perché per Marcel! ha scelto la Garbatella invece di Testaccio?
Nella visione del film cercavo un posto che fosse un non-luogo, che ricordasse Testaccio, la mia infanzia e lo sguardo di una bambina in quel mondo lì. Garbatella, un po’ per le architetture speciali e gatti con intorno il casino di Porta San Paolo, i giardini delle Poste ormai abbandonati. Luoghi per niente alla moda, ma carichi di vita. A Testaccio c’era una squadra di calcio che si chiamava “L’angoscia”. Ero la tifosa onoraria, mi portavano con loro. Giocavano nel vecchiocampo della Roma, un posto con il sapore delle storie che l’hanno attraversato.
In ogni angolo della città ci si imbatte in un set. Crede che il cinema a Roma faccia parte del tessuto stesso della città?
Beh, sì. E poi i grandi registi ce l’hanno mostrata con il meccanismo del racconto, della finzione. Giravano a Roma e allo stesso tempo già mettevano in scena la macchina del cinema dentro la città. Penso a Federico Fellini. È una cosa che la città ha nel suo spirito e credo che si presti di per sé. Non solo per la bellezza o per la decadenza. È la luce, un elemento fondamentale del cinema.
Se dovesse descrivere la città a un non romano?
Straziante e straziata, infinitamente seducente e pericolosa perché alimenta un amore che ti porta lontano. Non direi mai che delude, però fa soffrire.
Come sogna la Roma del futuro?
Sempre con la stessa indolenza che non svanirà mai. Ma più disponibile all’incontro e alla fruizione. Che non significa zone pedonali, ma spazi tutelati dove la socialità si può esprimere e portare a una trasformazione dell’immaginario.
La prima immagine della città che le viene in mente?
Qualcosa che a che fare con la sua luce e la sua aria, con una cosa che non striscia per terra. Uno strano spirito scomposto.
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