Ken Loach è come un parente da cui tornare quando ti stai perdendo. Quel totem di moralità e serietà che, direbbe Zerocalcare, rappresenta un simbolo, un gigante che ti indica la via quando tutti perdono l’orientamento politico, dei valori. La sua cinematografia ha raccontato il dopoguerra dalla parte degli ultimi e negli ultimi anni ha deciso più ancora che combattere il Potere, di mostrarci impietosamente ma anche con misericordiosa empatia le conseguenze di tutte le scelte dissennate fatte nelle cabine elettorali, nel non sostenere le lotte sociali, nell’accettare supinamente che il guadagno diventasse lucro avido.
A Locarno arriva, dopo essere passato da Cannes, con The Old Oak, in cui la memoria di una lotta eroica e sfortunata del passato si intreccia con la vicenda di profughi siriani che, come sempre, vengono spediti in comunità già in crisi (e in questo c’è un’assonanza inquietante e bellissima con l’ultimo lavoro proprio di Zerocalcare, Questo mondo non mi renderà cattivo, perché chi sa guardare gli ultimi spesso pensa le stesse cose anche a migliaia di chilometri di distanza).
Lo incontriamo nel chiostro della Magistrale di Locarno, poco prima che dei sindacalisti ottengano udienza da lui, alcuni sono arrivati fin da Berna per confrontarsi con il cineasta. Dopo andrà in Piazza Grande, denuncerà in un discorso di sei minuti “le contraddizioni dell’occidente che sta togliendo a tutti la speranza e dove non c’è speranza le destre avanzano”. E riceve un’ovazione. Di popolo e cinefila.
Sembra quasi che nella trilogia della dignità con The Old Oak arrivi anche una profonda riflessione sulla memoria
Vero. Dopo gli ultimi due film ci siamo detti che c’erano dei temi che non erano stati affrontati. Dovevamo, volevamo trovare un modo per far ricordare una storia potente, di lotta e di solidarietà della comunità mineraria di quel villaggio anche per far prendere coscienza di sé stessi e della propria storia a una comunità emblematica in quanto vive in una regione a forte vocazione mineraria in cui negli anni i centri abitati sono stati abbandonati e i pochi giovani rimasti girovagano senza una meta tutto il giorno, senza un luogo di ritrovo: la parrocchia ha chiuso, i pub hanno chiuso, molte scuole hanno chiuso.
Quella regione negli ultimi anni è la stessa che ha accolto il maggior numero di rifugiati siriani e in cui il confronto tra le due realtà è potenzialmente più a rischio. Ricordate che ad un certo punto c’è una foto del disastro della miniera del 1951. Abbiamo incontrato una vecchietta meravigliosa e un intero gruppo di persone che quel disastro l’hanno vissuto sulla propria pelle, siamo stati a casa loro, abitazioni molto modeste, quasi spoglie, abbiamo visto come vivono queste persone e come si comportano e abbiamo visto come vivono i loro vicini di casa giovani, nella stessa via e abbiamo osservato la disintegrazione nelle loro vite.
Secondo lei perché questo accade?
Molti di loro sono stati trapiantati lì da altre aree, sono stati collocati lì dopo essere usciti di prigione, le loro case sono costate 5.000 sterline. Abbiamo visto come alcune delle persone anziane fossero in migliori condizioni di salute di persone 30 o 40 anni più giovani di loro. Ma gli anziani fanno parte di una generazione che ha perso le proprie battaglie, che è stata profondamente segnata dal disinteresse della politica per le loro istanze perché dalla lotta sindacale del 1984 hanno perso il lavoro, hanno visto chiudere la miniera, le case a fianco alle loro essere vendute per poche migliaia di sterline e quindi anche l’impossibilità di rifarsi una vita altrove, la nascita della “gig economy”, basata sul lavoro precario e a chiamata.
Dovevamo dare corpo e anima a questa storia e al presente, e ci è sembrato che dare voce alla vecchia generazione fosse il modo migliore per spiegare lo scontro generazionale da un lato e culturale, sociale dall’altro.
In tutto questo, avete inserito la bomba a orologeria dell’immigrazione
I sirani hanno portato una crisi nella comunità. Parte della comunità reagiva immediatamente cacciandoli via, parte li guardava e capiva il loro dramma e chiedeva loro: “come possiamo aiutarvi?”. In quelle reazioni c’è tutta la crisi della classe operaia, in quel dolore c’è tutto il danno della propaganda delle destre, da Le Pen a Meloni ma anche la possibilità di tornare a tempi in cui non era ancora stata demolita la leadership dei sindacati, il primo mattone di questa restaurazione fascista che vediamo da decenni.
Nel film non c’è giudizio o pregiudizio, ci sono molte colpe ma l’unico colpevole sembra essere il Sistema
La prima cosa che abbiamo cercato di fare è stata capire la realtà che ci circondava. Se vivi in quella regione, che ha scontato sulla propria pelle l’abbandono della classe politica, il disinteresse delle istituzioni che la percepiscono solo come un contenitore di tutte le comunità problematiche e in cui le persone vengono collocate senza un progetto di inserimento, né sociale né lavorativo, in cui le comunità non vengono neanche avvertite del fatto che accanto a loro sta per trasferirsi una persona con seri problemi di dipendenza da droghe o che scappa da una guerra, la comunità si sente abbandonata e frustrata. E in pericolo.C’è una rabbia enorme, perché gli hanno tolto dalle mani la propria vita e le proprie possibilità, anche di un ricollocamento altrove perché non possono neanche più vendere la propria casa per rifarsi una vita altrove.
Nei suoi ultimi film gli unici “buoni” sono coloro, come Yara, che salvaguardano il loro orgoglio, come fosse l’unica cosa loro rimasta.
Non è così? La lotta delle persone è sempre per la sicurezza e la dignità. Ma le persone ormai vengono quotidianamente scippate di entrambe le cose: in Daniel Blake che viene portato alla fame, nei lavoratori della “gig economy” che non hanno più alcuna certezza lavorativa nella propria vita in Sorry We missed you e ora qui, in una guerra tra poveri, tra due classi di esclusi esiliati dal loro paese. Una nei fatti, l’altra anche geograficamente. Tutto questo viene da una società in cui la produzione è basata sul profitto e da delle persone che hanno fatto l’equazione mercato libero uguale libertà per le persone. Ma è la libertà di sfruttare l’unica che abbiamo ottenuto.
È come se negli ultimi 15-20 anni abbia messo da parte l’ideologia per l’antropologia
Non è così. Penso che l’ideologia debba venire prima perché se non capisci cosa causa i cambiamenti nella vita delle persone, non te ne puoi occupare. I cambiamenti nella vita delle persone sono solo sintomi. Sono nato nel 1945, sono cresciuto nel secondo dopoguerra in cui il fatto di aver vinto insieme una guerra e aver sconfitto insieme il nemico rappresentava un legame, un contratto sociale e solidale fortissimo. I servizi, i beni essenziali, le industrie, le ferrovie, il settore siderurgico, le miniere, appartenevano alle persone. Tutto apparteneva alle persone. E poi è arrivata la Thatcher e ha detto: “no, appartiene ai privati” e tutto viene dato alle compagnie private.
Lei era una marxista invertita. Aveva capito che il capitalismo sarebbe sopravvissuto e che i lavoratori avrebbero dovuto pagarne il prezzo, e l’hanno pagato e lo pagano ancora e ogni decade è peggiore della precedente in termini di umiliazioni e impoverimento, materiale e valoriale. Siamo in una situazione in cui si celebra come una vittoria della solidarietà il fatto che venga aperta una banca del cibo per i poveri, siamo a questo assurdo, non sono che le briciole del tessuto sociale che è stato disintegrato e del lavoro un tempo tutelato e ora smantellato.
Celebrano il contrasto minimo alla povertà della fame come se fosse un segno del successo del sistema. Ma tutto ciò può essere solo e unicamente combattuto dalla classe operaia organizzata, che può far riaprire le fabbriche e reclamare i propri diritti. Diritti fondamentali che, nel raro caso vengano difesi, diventano un simbolo di una grande vittoria sociale e politica. E così nascondono il fatto che dovrebbe essere scontato, necessario. Così pure scioperare sembra essere diventato un terremotare i bravi cittadini, abbiamo paura del conflitto tra classi, non sappiamo più come lottare per ciò che è giusto.
A proposito di scioperi, cosa pensa di quelli di Hollywood?
È una lotta industriale. L’industria del cinema è capitalista e in quanto tale come sempre, proverà a sfruttare le persone che vi lavorano. Lo sciopero è il risultato dell’ipercapitalismo che è alla base del settore dell’audiovisivo, hanno esagerato persino per un ambiente come questo. La grande questione, però, penso sia: come facciamo a cambiare i temi di cui si scrive? E questo non mi sembra sia all’ordine del giorno di chi protesta.
Gli scrittori, gli sceneggiatori, lavorano sul contenuto che altri decidono di fargli scrivere, indipendentemente dalle cifre che spunteranno, dall’intelligenza artificiale rimarranno sempre quelli che scrivono sotto dettatura di soggetti, multinazionali che cercano di modellare un immaginario a loro totale somiglianza. Otterranno di più dalle piattaforme? Staranno comunque vendendo il loro talento al miglior prezzo e forse non è quello che uno sceneggiatore dovrebbe fare, in fin dei conti.
In ogni film sembra che lo stato di salute della società di cui parla stia peggiorando. Non crede sia necessario, proprio visti i tempi, di infondere speranza e coraggio nelle persone, affinché si uniscano e lottino insieme per migliorare la propria condizione?
Credo che viviamo un flusso, in cui si fa un passo avanti e due indietro. Ma quando vai nelle comunità vedi entrambe le tendenze, persone che si integrano nel sistema perché hanno perso la speranza e non vogliono lottare e persone giovani che si organizzano, che si riuniscono, menti brillanti senza mezzi per ribellarsi.
Quello che abbiamo provato a fare in questo film è mostrare una Yara che lotta per essere vista come persona, non semplicemente come una musulmana che scappa da una guerra e la risposta delle persone, che agiscono creando una mensa dei poveri gratuita e per tutti è, al di là della descrizione di una realtà dolorosa, una risposta positiva alla crisi. Anche il fatto che Yara, che scappa dal suo paese con la consapevolezza che molta della sua storia e architettura sia già stata distrutta ed entra nella cattedrale e ascolta il bellissimo coro, ammira la bellezza di quel luogo, e si emoziona e lo dice a TJ, è una cosa che dà speranza, che crea un dialogo tra le comunità, interreligioso.
Come il suo dialogo recente con Papa Francesco
Non c’è una conversione religiosa da parte mia (dice ridendo). Il Papa ha parlato con me di lavoro e della classe operaia, dei diritti negati al lavoro e alla terra. È un uomo incredibile e ascoltarlo è stato estremamente interessante. Definirlo un leader politico, in un mondo in cui questo tipo di leadership, non violenta e rivolta agli uomini e non ai profitti, sostanzialmente non esiste o come in Sud America è stata azzerata, non è un’esagerazione.
Sulla sinistra inglese Ken Loach è sempre pessimista?
Credo ci sia un notevole numero di persone a sinistra che si sentiva rappresentato politicamente da Corbin, che adesso non ha una casa e credo stia lavorando a trovarla. Dobbiamo lavorare per far si che quel fronte, importante in termini numerici e di qualità delle persone, si ricompatti e lavori nella stessa direzione.
Davvero sarà il suo ultimo film?
Lo dico da un po’ di anni, ma credo di sì, almeno di finzione. Ho un’età in cui non sarebbe serio ragionare su un altro progetto.
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