“Vorremmo organizzare un concertino al Lido con il compositore del film, Cantautoma. Ha scritto una musica molto intima. Volevo che fosse come per il teatro, qualcosa di vivo”. Gianluca Matarrese, dopo aver presentato La dernière séance alla Settimana della Critica nel 2021, torna alla Mostra di Venezia. Questa volta alle Giornate degli Autori dove, nella sezione Eventi speciali, è protagonista con L’expérience Zola in sala con Luce Cinecittà dal 13 settembre.
Il film ruota attorno alla figura di Anne (Anne Barbot), una regista teatrale. Si è separata dal marito e sta cambiando casa. È spenta, senza desideri. Conosce Ben (Benoît Dallongeville), vicino di casa servizievole e attore senza scritture. Lui la guarda con occhi appassionati, lei non vuole mai più legarsi a un uomo. Ma quando decide di mettere in scena L’assommoir di Zola, è a lui che propone il ruolo di Coupeau, riservandosi quello di Gervaise.
Man mano che la storia si sviluppa, il confine tra la vita reale e la rappresentazione teatrale si riduce sempre di più. Tra letture e prove, tra ricerca e studio, la realtà sfuma nella finzione e i due sembrano ripercorrere esattamente tutti i passaggi della storia di Coupeau e Gervaise, fino alla rovina.
Il suo film richiede un atto di immersione totale da parte del pubblico. Era questo quello che voleva?
Sì, era esattamente la mia intenzione. A partire dal titolo, L’experience. Volevo che fosse un’esperienza spettacolare. E’ il cinema che mi piace fare, un work in progress. Dal primo film che ho fatto fino ad oggi sono in una specie di grande laboratorio. Mi metto a immaginare la realtà, poi torno a casa, la viviseziono, analizzo, scrivo con i collaboratori. E poi torno a girare una volta identificate le direzioni da prendere.
Ho sempre un modo laboratoriale di affrontare il procedimento di creazione. E in questo caso il procedimento diventa una reazione. Era importante che si perdesse il segno, sia per gli attori che per lo spettatore. Una specie di frontiera tra il reale e la finzione. Il cinema del reale è la finzione che mi interessa da sempre. Era un’intenzione volontaria e, allo stesso tempo, naturale, automatica dove non ci si soffermi troppo a pensare.
Durante la lavorazione ha avuto momenti di incertezza?
Avevo paura che fosse troppo intellettuale, che fossimo troppo in qualcosa di teorico. Una specie di viaggio mentale di un regista e di attori borghesi. Poi ci siamo resi conto che il discorso che portavamo avanti era universale. Perché partivamo da un romanzo che ha già in sé quelle tematiche: una donna forte ed emancipata, violenza coniugale, alcolismo, una società che schiaccia l’individuo.
Una società che, nel nostro caso – e a differenza del romanzo – parla del lavoro dello spettacolo. Una donna che combatte per esistere come creatrice teatrale. Alla fine è anche un film su una coppia, sull’amore, sul mestiere dell’attore, sui teatranti. Parlo anche di me in questo film, di come le nostre vite si mischiano alle nostre professioni.
Anne Barbot e Benoît Dallongeville figurano anche come co-sceneggiatori. Dal punto di vista emotivo è stato difficile mettersi così tanto a nudo per loro?
Assolutamente. Lo è stato per tutti. Ma allo stesso tempo è stato anche un piacere. Una sorta di creazione. Richiede tanto. L’ho sempre fatto. E lavoro con persone che hanno lo stesso tipo di devozione per questo tipo di mestiere. Perché sono mestieri che coincidono con la vita. Questo è il modo che abbiamo di vivere, di usare le nostre debolezze, fragilità, ferite. Effettivamente è stata una prova durissima.
E quello che è accaduto alla fine del film è qualcosa che non mi aspettavo. Anne e Ben mi hanno anche un pochino imbrogliato, perché io non sapevo che loro fossero realmente insieme. Anne mi fece una chiamata incredibile, in cui mi confessava tutto. A quel punto è tutto cambiato. Non sapevo più dove fossi. Ricordo che parlava al telefono come il suo personaggio. Non sapevo più cosa pensare. Mi dicevo che forse era un’improvvisazione teatrale.
Lavora da molto tempo in Francia. Cosa crede che l’industria italiana dovrebbe prendere in prestito da quella francese?
Ci sono due punti di vista diversi. Da una parte il sistema produttivo finanziario francese, dall’altra i contenuti. Per quanto riguarda il potere produttivo, credo che la Francia faccia molti film perché ci sono più sovvenzioni e finanziamenti. Però, a volte, ho l’impressione che siccome ci sono molti concorsi, commissioni e fondi, spesso bisogna rientrare in certe categorie e criteri. E per questo spesso i film si assomigliano molto tra di loro. Non si corrono molti rischi. E questo crea una controtendenza con un cinema indipendente molto forte che, a sua volta, si deve comunque finanziare.
Ci sono colleghi italiani dei quali ammira il lavoro?
Alice Rohrwacher, Jonas Carpignano, Agostino Ferrente, Alessandro Comodin, Francesco Costabile. Ci sono tantissimi coetanei nel panorama attuale, molto spesso di base all’estero. Ma raccontano storie italiane. È un classico. Questa questione dei finanziamenti è un vero problema. C’è una generazione di autori veramente piena di idee. Alcuni rimangono e combattono, altri vanno via.
Come spera venga accolto il suo film dal pubblico?
Non deve essere un film difficile, solo per intellettuali e amanti di letteratura. C’è un tentativo di renderlo il più possibile accessibile, perché le tematiche sono universali. La bellezza è di perdersi, non di farsi domande. Portiamo la cultura a tutti. Questa è la principale ambizione del film.
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