La guerra del Tiburtino III, gli alieni si prendono Roma: “La mia periferia è una commedia fantasy”

La regista Luna Gualano sul suo film, in sala dal 2 novembre e presentato in anteprima nella sezione di Alice nella città: "Non è vero che in periferia tutte le famiglie sono disfunzionali e che si vive sempre nel disagio. Smettiamo di criticare la gente che ci vive: periferia è anche comunità e accoglienza"

Tutto il mondo è paese. Ma anche un solo quartiere può diventare un microcosmo in cui rimettere in scena le dinamiche sociali tra persone. O tra alieni. Accade ne La guerra del Tiburtino III, film diretto da Luna Gualano e scritto insieme a Emiliano Rubbi. Una commedia sci-fi che ha lo stampo Manetti Bros (nella produzione) e che ribalta la figura dell’”estraneo”, che può essere tanto ufo quanto umano. Un quartiere, che dà titolo all’opera, invaso da una comunità aliena che si isola dagli altri, pronta a conquistare tutta la capitale.

La guerra del Tiburtino III, in anteprima in Panorama Italia nella sezione di Alice nella città, esce il 2 novembre al cinema. Nel cast Paolo Calabrese, Paola Minaccioni, Antonio Bannò e Sveva Mariani.

Gualano, come sbarcano gli alieni a Roma?

Non ricordo la genesi precisa del progetto. Scrivo col mio compagno, Emiliano Rubbi, quindi la nostra stessa casa è una fucina di idee aperta ventiquattr’ore su ventiquattro. L’ingresso dei Manetti Bros. in produzione ci ha permesso di strutturare meglio quella che era soltanto una scintilla. Quindi non saprei dire quale sia stato il momento esatto dell’illuminazione, ricordo soltanto che ci siamo divertiti molto a scrivere il film. E a immaginarlo.

Come sono saliti a bordo i Manetti Bros.?

Per loro era inconcepibile che ci fosse una regista, a Roma, che aveva girato un film sugli zombie di cui non sapessero nulla (Go Home – A casa loro, 2018, ndr.). Allora mi hanno voluta conoscere. Quando ci siamo incontrati hanno ascoltato alcune delle idee mie e di Emiliano, e quando hanno sentito di un’invasione ufo nella capitale, anzi, in un quartiere preciso della capitale, gli si sono illuminati gli occhi. Ci hanno fatto scrivere il soggetto e, alla fine, è arrivato il sostegno di Mompracem (la casa di produzione dei fratelli Manetti, ndr).

E che produttori sono?

Unici. Non c’è niente che gli somigli. Mompracem non è una casa di produzione, è un universo a sé. Quando cominci un progetto hai sempre il timore che i produttori possano avanzare delle pretese artistiche, soprattutto quando sono anche registi. Ma il loro rispetto per l’autore è notevole.

Si sono prestati anche per un cameo.

Gliel’ho imposto. Stavamo scrivendo insieme U.S. Palmese (prossima pellicola dei Manetti Bros., ndr.) e gli ho detto che avevo bisogno di loro per un cameo in una scena specifica. È stato divertente. E non è finita qui. Alla fine della sequenza ci sono gli alieni che si lanciano in una corsa. Quando sei sul set diventi bulimico di comparse, e mi ero fissata che dovessero essercene molte di più: allora ho anche la troupe come figuranti. Marco e Antonio si avvicinano e mi chiedono: “E noi? Non possiamo correre?”. E lo hanno fatto. È stata la parte più spassosa delle riprese. Non si vedono nemmeno in volto, ma non gli importa. A loro piace sporcarsi le mani. Dove li trovi due produttori così?

Nei suoi film racconta la vita quotidiana inserendo elementi di fantasia. L’immaginazione è una componente imprescindibile del suo lavoro?

È la mia vita. Mi permette di leggere il reale in maniera paradossalmente più vera, evitando le “ferite”. È un’esigenza espressiva. Mi rendo conto che può suonare illusorio. Ma mi permette di vivere più serenamente.

La fantasia è un luogo in cui rifugiarsi?

Esatto. Ma non mi scollego mai completamente dalla realtà. Non credo che esistano davvero degli alieni che hanno conquistato il Tiburtino, insomma. Il film ha due letture: c’è sia l’alieno in sé, che l’elemento “estraneo”, rappresentato dal personaggio di Lavinia, interpretato da Sveva Mariani. Una fashion vlogger che si ritrova su un altro “pianeta”, diverso dal suo mondo, e che innesca l’incontro/scontro tra diverse classi sociali.

Alla fine, come dice Lavinia, “i poveri sono come noi”.

Sì, perché non c’è un vero e proprio arco di cambiamento nei personaggi. Il pubblico può credere che alla fine si ricrederanno, ma in realtà ci si accorge presto che rimangono fedeli a se stessi. Lavinia, poi, è un personaggio totalmente distante da me o Emiliano. Abbiamo cercato di renderla simpatica, per permettere allo spettatore di simpatizzare con lei. Ma alla fine è molto simile a una di quelle figure che una certa sinistra italiana cerca di mitizzare, gente che attira l’attenzione su di sé fingendosi interessata ai problemi della vita reale.

Non crede nell’attivismo social?

Credo possa avere un suo valore. Il problema è che spesso non punta davvero a risolvere i problemi, ma ad accrescere la propria popolarità. Si individua un target e il tema che va per la maggiore, poi si vendono slogan o prodotti. Il vero attivismo dovrebbe avere come scopo quello di aiutare gli altri.

Quindi il finale de La guerra del Tiburtino III non è “pinkwashing”?

No, nonostante io sia, ovviamente, femminista. Si tratta solo del naturale sviluppo della storia. Ci siamo resi conto in scrittura che i punti di svolta del film erano trainati dalle figure femminili. Ma a prescindere non credo nella retorica per cui, se sei uomo, sai raccontare meglio i personaggi maschili, e se sei donna quelli femminili. Se qualcuno mi chiamasse per dirigere un film vorrei fosse perché conosce la mia filmografia, la mia propensione per il genere e l’amore per gli elementi fantasy.

Com’è la Roma che racconta nel film?

Vivo in un quartiere vicino al Tiburtino III. Al cinema vengono spesso raccontati solo i lati negativi delle periferie, criticando le persone invece che le istituzioni, che tendono così a deresponsabilizzarsi. Non è vero che in periferia tutte le famiglie sono disfunzionali e che si vive sempre nel disagio. In verità la gente che abita questi quartieri sente un grande senso di appartenenza, proprio come al Tiburtino III. Le persone ci hanno accolto facendoci sentire parte della comunità.

Si sono presentate per fare i provini?

Assolutamente sì, in un paio di giorni si sono presentati in quattrocento. C’è stata grande partecipazione, erano felici che il quartiere venisse rappresentato per una volta in una commedia, non nel solito drammone.

Farete una proiezione nel quartiere?

Sì, l’ho detto fin dall’inizio. È un quartiere dove i legami sono autentici. Non vedo l’ora di vedere il film tutti insieme.

L’intervista ai protagonisti Antonio Bannò, Sveva Mariani, Paola Minaccioni e Paolo Calabresi per La guerra del Tiburtino III: