Circa sedici anni fa, in una gelateria di Teheran, un uomo, Morteża ʿAbdolʿali Sarbandi, si rivolse a una ragazza di diciannove anni, Reyhanen Jabbri, studentessa di architettura e decoratrice di interni alle prime armi. L’aveva sentita parlare al telefono di lavoro e aveva capito che faceva proprio al caso suo: aveva bisogno di riprogettare alcuni uffici. Reyhanen accettò con entusiasmo.
Lo segue di buon grado per un sopralluogo ma si accorge che la sta portando in un appartamento. Si insospettisce, fa attenzione a lasciare la porta aperta, prende appunti, fa qualche schizzo, torna verso l’entrata, si rende conto che la porta è stata chiusa. L’uomo le sia avvicina, le intima di non urlare: nessuno può sentirla. Non avviene nessuno stupro perché, Reyhanen è terrorizzata ma decisa a non arrendersi. Prende un coltello, glielo pianta nella schiena, scappa.
Quella notte viene a prenderla la polizia. Reyhanen finisce in carcere dove passerà sette anni, prima dell’esecuzione. Morirà impiccata per omicidio.
Il figlio maggiore di Sarbandi, Jalal, potrebbe concederle la grazia e il perdono. Lo farà, ma solo se lei ritirerà l’accusa di tentato stupro a suo padre. Reyhanen non la ritira.
Abusi di potere
“Aspetto il giorno in cui non verrà più stuprata nessuna ragazza. Aspetto il giorno in cui nessuno abuserà più del proprio potere. Aspetto il giorno in cui i diritti dei più deboli non saranno più violati approfittando di tale debolezza”, sono le parole di Reyhanen, ventiseienne, citate alla fine del documentario che ne racconta la storia.
Seven Winters in Teheran è la storia straziante di una giovane donna così coraggiosa da andare incontro alla morte per farsi garante della verità e della dignità non solo sua, ma di tutte le donne che ha incontrato nei suoi sette anni di carcere, e anche per tutte quelle che non ha incontrato.
Presentato alla settantatreesima Berlinale, diretto dalla documentarista tedesca Steffi Niederzoll, Seven Winters in Teheran è stato costruito con un patchwork di riprese casalinghe, momenti quotidiani, compleanni, risate; e poi interviste, registrazioni rubate, lettere lette ad alta voce, immagini grigie e squallide di un carcere, fra letti a castello e gabinetti zozzi; materiale registrato di nascosto e di nascosto portato fuori dall’Iran. “Le registrazioni non autorizzate effettuate in luoghi pubblici sono perseguibili con 5 anni di carcere”, si legge all’inizio del film.
Trenta frustrate
Ne viene fuori il cammino che porta la famiglia di Reyhanen dal primo improvviso arresto della figlia alle trenta frustate per l’accusa assurda di “relazione fuori dal matrimonio” (“Non ho pianto urlato o implorato. Mi sono sentita umiliata e sminuita. È giusto frustare?”), dai lunghi anni del processo alla sentenza di omicidio volontario, i tentativi di convincere Jalal a graziarla, il sostegno della stampa e della politica internazionale, tutti gli sconosciuti che accompagnano la famiglia davanti al carcere a urlare e pretendere la liberazione Reyhanen. E la speranza fino all’ultimo istante che Reyhanen possa uscire di lì, se solo lei o Jalal cambiassero idea.
Ma una tragedia è una tragedia, Reyhanen una moderna Antigone, Jalal un moderno Creonte, nessuno dei due farà un passo indietro e la strada verso il sacrificio disumano che lo stato iraniano permette appare ineluttabile.
Dentro e fuori il carcere di Teheran
Il documentario racconta soprattutto i sette anni della famiglia fuori dalle mura del carcere. Ma ci sono anche i sette anni dentro il carcere. Anni in cui la denuncia di stupro di Reyhanen assume un significato che va oltre la sua storia personale. Le sue scelte, la sua determinazione, le sue parole diventano simbolo della lotta di tutte le donne dell’Iran. Anni in cui la diciannovenne cresce, si trasforma, trova dentro il carcere le sue nuove compagne, nuove alleate e nuove storie.
Sono storie di donne violentate, donne ripudiate dalla famiglia per aver divorziato e da allora costrette a vivere per strada, donne fatte prostituire dall’età di 12 anni per permettere ai fratelli di vivere bene, donne sole, umiliate, violate, colpevolizzate. Storie di donne che vivono in un mondo in cui le leggi sullo stupro sono scritte dagli uomini e “ogni donna che vuole vivere una vita moderna e sentirsi libera deve aspettarsi di essere violentata”. Storie che la portano a pretendere dalla propria famiglia a chiedere la grazia non solo per sé ma anche per le compagne di cella.
La tragedia del capro espiatorio
Una strada lunga che la porta a immolarsi come capro espiatorio: scelta tragica, che appartiene agli eroi della tragedia e avvicina mortali come Antigone o Reyhanen all’assolutezza del mito.
Seven Winters in Teheran ha ricevuto la menzione speciale al MiX festival di Milano “per aver mostrato il coraggio di una donna e della comunità nata intorno a lei nell’affrontare al prezzo della vita un regime che – dietro al pretesto della religione – reprime sistematicamente i diritti delle persone. Il film racconta la storia di una donna ma denuncia sistema di potere che discrimina e uccide anche le persone lgbtq+”.
A partire da metà ottobre e fino a settembre 2024, il documentario girerà per le sale di diverse città italiane.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma