Completo beige, quasi sabbia, di quelli che porta solo chi se lo può permettere. Ci aspetta in piedi Lambert Wilson, in una delle stanze del mitico Hotel Belvedere, situato in collina a Locarno – ci si arriva solo con una salita che sarebbe stata impossibile anche per Marco Pantani. Un sorriso di quelli che sanno farti solo gli attori francesi, un sorprendente (ma non troppo, ha recitato per Andò, Morante, Vicentini Orgnani, Lenzi, Bruni Tedeschi) italiano, una smorfia di dolcezza quando gli auguriamo “buon compleanno”, perché nella “capitale mondiale del cinema d’autore”, dove fa il presidente di giuria del concorso internazionale, compie anche gli anni (65, ma ci crediamo solo perché lo dice Wikipedia). Dà appuntamento agli amici per un brindisi e si comincia, con questo pezzo di storia del cinema europeo e mondiale che è passato dalle sorelle Wachowski a Claude Chabrol, da Andrzej Wajda a Peter Greenaway, da Carlos Saura a Paul Verhoeven, da James Ivory ad Alain Resnais.
Un grande attore che fa il giurato in un festival cosa guarda?
Il mio approccio è quello di chiedermi ogni volta cosa sia il cinema. Per noi attori, o registi, è importante riflettere sull’essenza della nostra arte. In realtà vale per ogni creativo: penso a un mondo che amo molto, quello della musica, più definibile rispetto alla Settima Arte, che in qualche modo contiene anche tutte le altre. Dopo 46 anni non lo so ancora: so però che qui, i miei colleghi ed io, dobbiamo scegliere cosa sia cinema e cosa no, riflettere sulla forma, sulla grammatica espressiva ma anche sui contenuti. Perchè sento che c’è bisogno, ora più che mai, di film che parlino di politica, che trattino temi che sono al centro delle nostre preoccupazioni, dall’ambiente alle minoranze, dall’ecologia alla guerra. Senza farci ingannare, perché un argomento importante non fa un film: può al massimo succedere il contrario. Ma siamo umani e abbiamo bisogno di interessarci l’uno all’altro e al benessere comune. O forse, quando entro in una sala, sono semplicemente troppo ottimista.
Lei è un attore che ama guardare i film degli altri?
Certo che sì, so che molti miei colleghi non amano farlo, sono troppo concentrati su di sé e sul loro lavoro, ma non li capisco. Io trovo che far parte di una giuria mi consenta anche di migliorare come attore, capire cosa funziona e cosa non funziona, perché qualcosa mi commuova e altro mi annoi, perché mi appassioni al racconto abbandonando il personaggio centrale che, all’improvviso, non m’interessa più. In quel caso, per esempio, non è un problema dell’interprete, ma di scrittura. Ed è importante capirlo, perché la cosa più difficile per chi recita è proprio scegliere i copioni. Se non capisci subito se uno script è buono o meno, sei rovinato: sul set sarà troppo tardi per accorgertene.
E lei è bravo a farlo?
No, sono negato, una frana. Un attore dovrebbe diventare regista mentre legge, ma io non lo so fare. Eppure, almeno a teatro, ho diretto diverse pièce, ma il palco è un mondo totalmente diverso. Qui a Locarno abbiamo presentato Cinq hectares di Emily Deleuze, che inizialmente ho definito come un confronto-scontro tra cultura cittadina e contadina. In realtà, rivedendolo e parlandone con lei, ho capito che parla soprattutto di uno sguardo femminile sulla sordità degli uomini, sulle loro ossessioni infantili che esplodono quando vengono a contatto con la terra: il loro senso del possesso, della rivalità, della rivalsa diventa parossistico. Se possiedono un pezzetto di terreno si trasformano in bambini. E io sono identico a loro. Pensavo fosse “solo” un ruolo geniale, mi sono trovato in un’opera molto politica.
Non possiamo non chiederle dello sciopero che vede tra gli argomenti più discussi l’intelligenza artificiale, visto che lei ne ha incarnata una nella saga di Matrix. È stato “il Merovingio”, una IA molto evoluta.
Sono dalla loro parte, al 100%, ho intenzione di mostrare solidarietà ai miei colleghi – anche io sono iscritto al SAG, ma non avendo residenza negli Stati Uniti sono esentato dallo sciopero – durante la serata finale del festival. Non so se indossando una t-shirt o facendo altro, ma credo che questa lotta sia fondamentale per il nostro futuro. È esagerato definirci schiavi, visto che siamo pagati bene, ma ormai siamo manipolati come artisti e spettatori. Ci nascondono l’essenziale, non ci dicono quale sia il vero pubblico, come ci “vendono”, quali siano le cifre della nostra esposizione. Dell’intelligenza artificiale, io, come dire, sono un testimone oculare. Quando fecero il videogioco di Matrix, Enter the Matrix, mi tennero un giorno a fare ogni tipo di espressione per incamerarla e replicarla con la tecnica della motion capture, poi un altro giorno a registrare più parole possibili, così che il mio avatar fosse perfetto. Che fine farà quell’altro me stesso? Potrebbe serenamente dichiarare una guerra, può farlo con la mia faccia e la mia voce. E parliamo di vent’anni fa. Quindi, lo ripeto, sono con i miei colleghi statunitensi e anzi credo che stiano combattendo una battaglia di civiltà, dopo la quale niente sarà più lo stesso. Chi vincerà deciderà molto, non solo riguardo al cinema, ma del nostro futuro.
Cosa possono fare gli attori non nordamericani?
Anche se non sto scioperando – anzi, ora sto facendo una serie francese per Apple TV+, La maison, sull’alta moda – posso però esprimermi e ribadire il mio sostegno. Vorrei che venissero coinvolte anche le altre arti: tornando alla musica, per gli stessi motivi del cinema e molti altri, corre più rischi. Noi artisti siamo stati “rubati” da questi giganti economici e della comunicazione, siamo stati costretti con contratti buyout a cedere i diritti di sfruttamento agli studios nei secoli dei secoli, e per universi e galassie non ancora scoperte. Star escluse, ovviamente: se sei Leonardo DiCaprio fai parte del board che decide. Ma il resto dei miei colleghi, noi che siamo il 99,99% di questo popolo, siamo condannati ad accettare questa abdicazione ai propri diritti. Che sono personalissimi, perché riguardano la tua immagine. Cosa sei, cosa rappresenti. E tutto questo succede mentre ti rendi conto che sul treno, in aereo, sull’autobus, anche sullo smartphone di chi sta camminando accanto a te, passa qualcosa su uno schermo, grande o piccolo che sia, che ha la tua faccia, la tua voce. E tu da quelle visioni, da quegli ascolti, non guadagni nulla, sei escluso. Non stiamo lottando solo per qualche dollaro in più, ma per riappropriarci di noi stessi. Stiamo passando da un’epoca all’altra e dobbiamo decidere come vogliamo abitarla.
È ottimista sull’esito di questo sciopero?
Non lo so, è difficile dirlo. Sono stato per tanti anni militante di Greenpeace, almeno venti. Questo contratto morale si è rotto per un motivo banalmente ideologico e insulso, una mia dichiarazione sulla cerimonia di premiazione dei César (gli Oscar francesi: Wilson aveva difeso Polanski dagli attacchi delle femministe, alleate degli ambientalisti e la famosa ong per solidarietà lo “licenziò”, ndr), e da lì ho maturato una delusione sulle battaglie politiche molto forte. Spesso noto che si arenano su parole, ideologismi, incapacità di sintesi tra chi dovrebbe allearsi e invece si fa la guerra. Credo dipenda anche dalla mia età: qualsiasi sarà il risultato, non riguarderà me. E poi penso al lockdown, dove sono finiti i nostri buoni propositi per salvare noi stessi e il mondo: è cambiato qualcosa? No, inquiniamo persino di più, distruggiamo senza rimorsi il regno animale, siamo sempre più egoisti. Ecco, anche sul cinema sento questa spiacevole sensazione che nulla cambierà. Ma spero di sbagliarmi.
Intanto in molti già paventano la fine del cinema in sala.
Lo pensavo anche io, poi sono venuto al Locarno Film Festival, questo luogo magico in cui quest’arte vive florida in mezzo a migliaia di persone che fanno la fila per godersela, e in poche ore mi sono rassicurato. Ero molto preoccupato, ora vedo davanti a me una forte luce di speranza, grazie a questo piccolo grande miracolo che abbiamo davanti (dice, indicando idealmente la Piazza Grande in cui ieri molti spettatori hanno guardato il film con impermeabili leopardati, ndr). Qui sento un’energia che mi scalda il cuore. Probabilmente è proprio dai festival che dobbiamo ripartire.
La stessa energia che la porta a scegliere ruoli sempre diversi?
Non c’è niente più interessante, senza energia la vita diventa terribilmente noiosa. E io tendo ad annoiarmi facilmente, la mia pazienza si consuma in un attimo. E poi è una questione di buona educazione nei confronti del pubblico, non devi stancarlo, ingannarlo, devi sempre sfidarlo. Ecco perché cambio spesso soggetto e genere.
Come in Benedetta di Verhoeven. Quando ha deciso di sperimentarsi anche in supercattivi?
Non l’ho deciso io, ma un maestro come Paul Verhoeven. Con chi insegna cinema, con chi ha un talento fenomenale, puoi fare quello che vuoi. E tu devi dedicarti anche ai ruoli più piccoli per i film e gli autori meno conosciuti, proprio sperando che i grandi si accorgano di te. Ricordo una volta, a Berlino, presentavo un premio cinematografico indetto dalla commissione europea: davanti a me avevo più di 30 dei migliori registi del mondo. Ecco, in un’occasione del genere tu vorresti solo scendere e dir loro quanto li stimi, che daresti qualsiasi cosa per lavorarci. Ma non puoi farlo, è maleducato, noioso e petulante. Non sai che frustrazione. Allora devi fidarti del tuo talento e della loro capacità di intuirlo, perché le carriere degli interpreti dipendono dai registi, dalla loro capacità di vederti e capirti. Sono loro che fanno la differenza.
In un film è meglio avere un grande regista o un grande attore?
Vorrei dire il secondo, ma sospetto che sia il primo. Perché noi attori siamo molto bravi a capire il problema di un collega e ogni tanto possiamo anche essere bravi a inventare un modo di filmare. Ma molto più spesso, dietro alla macchina da presa, ci accontentiamo di essere lineari ed elementari. Poi nella tua vita arriva un Resnais, che ha suonato e sognato al cinema ogni nota possibile, che ha inventato un modo di raccontare e tu dici a te stesso che quello è un altro campionato, che lui quella mente e quello sguardo ce l’aveva da quando ha compiuto 5 anni. E devi accontentarti, con lui a guidarti, di essere un esecutore all’altezza. E imparare il più possibile.
Lei ha lavorato in Inghilterra, Francia, Italia, Nord America. Cambia il modo di essere attore a seconda di dove si è?
Io sono un mercenario, vado dove mi pagano. Scherzi a parte, l’unica reale differenza per me è tra Europa e Hollywood. Noi siamo più onesti intellettualmente, un casting director ti farà subito capire se non piaci a lui o al cineasta che dovrebbe scritturarti ma anche che, magari, penseranno a te per un ruolo più adatto al tuo talento. Dall’altra parte dell’oceano ti accompagnano alla porta dicendoti che sei un genio, che adorano il tuo lavoro e appena l’hanno chiusa, ti dimenticano. E poi produttori, agenti, l’industria a Los Angeles ti danno una settimana per capire se li farai guadagnare o meno, poi ti buttano via. So che ai registi danno cinque copioni e in pochi giorni l’autore deve capire qual è l’unico che è “bankable” (con buone possibilità di fare soldi, di incassare, ndr). Penso al povero Pitof: a Hollywood ci arrivai con lui, per un film francamente orrendo, ora posso dirlo, Catwoman. Andò male e lo hanno catapultato nell’oblio. Senza rimorsi. Ci avrà messo pure del suo – ma poco, fidati – però in Francia sarebbe stato perdonato per questo fallimento, gli avremmo permesso di sbagliare. Hollywood è un altro mondo, un altro pianeta e io non parlo lingue marziane, non capisco i ricatti dei grandi budget, gli esercizi di stile dettati dal presunto lusso di avere milioni di dollari. Io vivo sulla terra.
A questo punto non possiamo non chiederglielo. Come ci si sente a far parte del franchise cinematografico più amato di tutti i tempi, Matrix, e al contempo ritrovarsi nel film più sbeffeggiato, odiato, ridicolizzato della storia dei supereroi, Catwoman?
(Ride, di gusto, ndr). Proverò a dare una risposta seria: io sono orgoglioso di tutto quello che ho fatto, perché ci ho messo il massimo impegno. E poi sono un soldato, un marinaio, non lascio i miei compagni soli in trincea, non abbandono la nave che affonda, la difendo. Anche se ho dei dubbi fin dall’inizio, rimango là a combattere. Così ho fatto anche nel caso di Catwoman, con un po’ di fatica, lo ammetto. La differenza essenziale tra quei due progetti? La forza dell’autore. Da una parte hai le sorelle Wachowski che nonostante i budget impressionanti tengono il controllo di tutto, resistono a ogni pressione esterna, tirano fuori un soggetto interessante e lo sviluppano al meglio. Dall’altro un giovane uomo a cui danno un film interessante da 40 milioni di dollari, nel cui cast, a un certo punto, improvvisamente, entrano Sharon Stone e Halle Berry. A quel punto diventa altro, si superano i 100 milioni di budget e lo studio ha paura: vuole una storia che coinvolga ogni tipo di spettatore, perché si sta esponendo troppo. Le sorelle Wachowski gestiscono tutto come autori europei, Pitof ben presto è diventato uno shooter: ero con lui quando, un giorno prima del set, gli recapitarono la stesura definitiva della sceneggiatura. Rispetto alla sua, era rimasto ben poco. L’avevano ribaltata, c’erano pagine intere mai viste, l’avevano riscritta a tavolino pensando ai target commerciali più importanti da “colpire”. Volevano piacere ai bambini e alle nonne. Era un disastro annunciato. Tanti, troppi autori europei o indipendenti americani ho visto essere cannibalizzati da quel sistema. Mantenere una propria identità creativa, a Hollywood, è davvero difficile.
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