Leonardo Maltese sa di essere bravo. Giovanissimo, classe ’97, il battesimo del fuoco è stato con Gianni Amelio, che lo ha voluto per il ruolo di Ettore Tagliaferri nel film sul caso del poeta Aldo Braibanti, Il signore delle formiche. La seconda pellicola non è da meno. Nel cast di Rapito di Marco Bellocchio, reduce dalla vittoria per la miglior regia ai David di Donatello 2023 con Esterno notte, Maltese interpreta la parte di Edgardo Mortara, ragazzino sottratto alla propria famiglia per volontà del Pontefice, e battezzato per diventare da ebreo a cristiano.
Un’altra storia vera, un’altra grande prova. Un altro importante festival che è pronto ad aspettarlo, passando dal Lido di Venezia dove venne presentato il film di Amelio nel 2022 al red carpet di Cannes per l’anteprima di Rapito. Aspettando l’esordio sulla Rai, col prossimo ruolo di Giacomo Leopardi.
Due film, due maestri del cinema italiano: Il signore delle formiche con Gianni Amelio e Rapito di Marco Bellocchio. Ha subito puntato ai migliori.
È strano, non ci avrei creduto se me lo avessero detto prima. Sono uscito dall’accademia e avevo voglia di lavorare, sapevo che sarebbe successo, ne ero convinto. Ma mai e poi mai avrei pensato di partire da Amelio e Bellocchio. Credevo avrei intrapreso ruoli più, diciamo così, normali. Magari sarei partito da qualche serie. E, invece, ho avuto subito due esperienze meravigliose e qualsiasi prospettiva mi fossi prefissato è drasticamente cambiata. Tutto grazie a Gianni Amelio.
Effettivamente i colleghi della sua età, chi più o chi meno, tendono a partire da ruoli non così intensi oppure da prodotti più fruibili, come potrebbe essere una serie teen.
Infatti lo trovo bellissimo. I ruoli che ho rivestito sono quelli che solitamente un attore può aspettare anche tutta la vita. Avevo messo in conto che avrei dovuto attendere. Pensavo avrei cominciato da qualcosa di più leggero, poi avrei aspettato, magari fino ai trenta, quaranta, cinquant’anni. Il lavoro dell’attore è un percorso lungo, non deve mica accadere tutto prima dei venticinque anni. Ma è incredibilmente stimolante calarsi in parti così pesanti e profonde, nelle quali ci si può divertire, e anche molto.
Ci si domanda quasi se ha intenzione, prima o poi, di interpretare una parte comica. O in che modo si diverte nella vita.
Ho sempre creduto di avere un lato comico, specialmente quando facevo teatro. Anzi, fino al ruolo di Ettore Tagliaferri pensavo che a risaltare sulla scena fosse molto più la mia presenza comica. Ma tutti gli attori drammatici arrivano dalla commedia. La comicità è un’emozione molto potente, più di quella drammatica. È un tratto istintivo, può arrivare molto velocemente allo spettatore e il performer deve essere rapido a saperla trasmettere. Mi piacerebbe prima o poi destreggiarmi in un ruolo comico. Ma la verità è che mi piace sperimentare. Ed è così che mi diverto, anche nella vita vera.
Ha raccontato che Amelio, quando l’ha scelto, cercava poco più di una comparsa, e alla fine si è ritrovato di fronte a un attore. Da cosa può averlo percepito? Cosa la rende un attore?
Vivo questo mestiere in maniera altalenante. Ma sento che è la cosa che posso e voglio fare. Mi fa sentire utile. A scapito anche del mio benessere. Quando qualcuno sa di essere bravo in qualcosa, è giusto che restituisca tutto ciò che può. Sembra un discorso finto, ma lo sento veramente. Quando Marco Bellocchio mi ha chiamato per il ruolo di Edgardo Mortara sentivo di volerlo davvero, sapevo cosa potevo mettere di me in quella parte.
Però la sua più grande paura, lo ha ammesso in un’intervista, è di rimanere disoccupato.
Infatti ho scelto il lavoro sbagliato. Sento la pressione, ma ho anche una voce dentro di me che mi dice che sono la persona giusta. Però a mio figlio non farò mai fare l’attore, o un mestiere simile, nemmeno il grafico freelance.
Che poi la prima volta che si viene scelti per una parte si può pensare che sia la fortuna o il caso. Con la seconda c’è più tensione, perché bisogna dimostrare veramente di meritarselo.
È assolutamente vero. L’ho sentita questa cosa. Per Il signore delle formiche ero felice della possibilità che Gianni Amelio mi aveva dato. È uno dei migliori autori italiani, i miei genitori mi avevano fatto vedere da piccolo Lamerica e ne rimasi scioccato. È un film straordinario. Quando però ho fatto il provino per Marco Bellocchio ho sentito di dover dimostrare qualcosa di più. Magari Gianni aveva semplicemente avuto l’intuizione perfetta, quella che sa indicarti il giusto attore per quel ruolo in quel determinato luogo o momento. Ma non è detto che questo debba o possa ripetersi. Per il provino di Rapito volevo che Bellocchio vedesse qualcosa in me. Volevo avere la sicurezza di essermelo meritato.
Vogliamo sapere di più di questo provino per Marco Bellocchio.
Era un provino su parte. Dovevo recitare una vera e propria scena. L’ho fatta due volte, mettendo tutto quello che potevo. La verità è che ai provini non sai mai quello che bisogna fare. Non sai niente. Non è detto che ti diano l’intera sceneggiatura, ma solo la sequenza da preparare. Con Bellocchio, lo ammetto, sentivo un po’ la paura. È come dicevamo prima, è puntare al secondo ruolo della propria carriera. È quello per cui dici: voglio fare questo mestiere, voglio dimostrare di esserne capace e, perciò, voglio ottenere questa parte.
E invece lavorare insieme a lui sul set di Rapito?
Bellocchio è interessante sia quando ci parli, che semplicemente quando lo ascolti. È la persona più intelligente che abbia mai conosciuto. Come regista non dà molti suggerimenti. Almeno non ne ho avuti tanti, questo perché sa come relazionarsi a ogni suo attore. I registi bravi sono quelli che sanno come prendere i loro interpreti, cosa e come dirglielo. Quando Bellocchio ti dà un’indicazione è come ascoltare un trattato accademico, di quelli che vengono discussi in università. Non sono solo spunti attoriali, ma hanno un fondo filosofico e storico e staresti ad ascoltarlo per ore.
Vista la storia vera al centro di Rapito, avrete riflettuto molto sulla religione e su ciò che comporta. È cambiata la tua idea sulla fede durante la lavorazione del film?
Sicuramente ho passato più tempo nelle chiese di quanto avessi mai fatto prima. Vivo una certa spiritualità, ma non mi definirei una persona religiosa. Ero cristiano, ma come lo siamo tutti fino ai quattordici o quindici anni, quando vai a catechismo, giochi al campetto della chiesa, fai il chierichetto. Poi basta. Ma rispetto le persone che hanno fede, ne sono affascinato.
Dalla figura di Aldo Braibanti a quella di Edgardo Mortara, continui ad attraversare la Storia. Dai processi all’omosessualità alle guerre di religione. Ci rivedi i traumi che caratterizzano l’attualità?
La storia si ripete sempre, purtroppo. Ci sono degli umani che non imparano mai. A volte, però, le cose si ingigantiscono, e una piccolezza può sfociare in tragedia. Quando c’è un evento traumatico, penso alle alluvioni che sta affrontando l’Emilia Romagna in questi giorni, ci sono sempre dei problemi tra civili e istituzioni. Adesso, come al tempo dei romani. Ne Il signore delle formiche c’è l’oppresso e l’oppressore. In Rapito c’è la prepotenza del potere ai danni degli ultimi.
Sarà poi il turno di Giacomo Leopardi, di cui vestirai i panni per la Rai. Come sarà il tuo poeta?
Sarà geniale, come era. Sarà intelligente. Sarà Leopardi (ride, sapendo di non potersi far sfuggire altro, ndr.).
Tra l’altro ne Il signore delle formiche hai lavorato insieme a Elio Germano, il nostro ultimo Giacomo Leopardi, entrato nell’immaginario con Il giovane favoloso di Mario Martone del 2014. Lo hai chiamato? Chiesto consigli?
Lo devo chiamare. Non vedo l’ora! Non so nemmeno se sa che sarò Leopardi. Con Elio siamo diventati amici, tutti sono amici di Elio, anche se non avevamo tante scene insieme nel film di Amelio. In verità voglio chiamarlo, ma quasi non so cosa dirgli. È ovvio che abbiamo tutti fissa quell’immagine lì, lui nei panni di Leopardi. È stata la prima cosa che ho pensato quando ho avuto la parte: “minchia Elio”. Penso ci rideremo sopra.
Sono tanti i colleghi attori con cui ti sei incrociato. Da Elio Germano a Luigi Lo Cascio. Fino a Barbara Ronchi, vincitrice del David di Donatello 2023 per Settembre, con cui reciti insieme in Rapito.
Quando hai accanto attori simili ti senti al sicuro. Tutto sembra facilissimo. È una cosa che ho capito subito ed ha un’importanza fondamentale. Quando hai qualche scena con Barbara Ronchi, ad esempio, senti che si tratta della cosa più facile al mondo. In questi colleghi ho trovato professionisti bravi, maturi, ma anche gentili e generosi, che sanno di avere più esperienza e, per questo, si prendono la scena sulle spalle. Personalmente sono ancora in una fase in cui se mi danno qualche responsabilità dico: no no, aspettate, sicuri? Invece loro si trascinano l’intera sequenza. In questo Luigi Lo Cascio ha avuto un’importanza quasi paterna, ha saputo indirizzarmi dandomi spunti su cui riflettere, sia dentro che fuori dal set.
Insomma, due poeti, Braibanti e Leopardi. Però anche tu hai velleità poetiche…
Sì, ma anche io nasco come poeta. Come tutti gli adolescenti ho attraversato la fase della scrittura di poesie…
Non credo che proprio tutti gli adolescenti abbiamo avuto questa fase.
Dici? Credevo di sì! Io ne ho conosciuti altri. Ricordo che il mio primo prodotto artistico sono state delle poesie rilegate. Ho scritto una poesia a mia madre a sette anni che abbiamo ancora e, devo dire, è proprio bella, con dei temi profondi per un bambino. Che poi è proprio la scrittura ciò che amo di più, anche nella mia attività nella musica, che pratico col nome Leo Fulcro. Ma anche lì, la cosa che mi piace di più quando produco musica, sono le parole. Canto pure, ma non sono Céline Dion. Suono la chitarra, ma da spiaggia, faccio fare a quelli bravi. Di mio ci sono i testi.
Quindi c’è da aspettarsi qualche testo anche per il cinema? O per il teatro, magari.
Mi piacerebbe fare un film da grande. Però devo studiare tanto. Ho visto come funziona un set, mi sono accorto di quanto è difficile. Ma vorrei succedesse. Vorrei fare una regia, oppure scrivere una sceneggiatura.
Dopo due pilastri del cinema italiano, invece, c’è un regista giovane con cui vuole lavorare?
Mi piacerebbe lavorare con Alice Rohrwacher.
Che potrebbe incontrare a Cannes, dove è in concorso con La Chimera. Aveva però detto che voleva sperimentare anche qualcosa di leggero, una commedia. Alice Rohrwacher è sempre una personalità da cinema impegnato.
Ha ragione. È che ne rispetto tantissimi di registi, ma ciò che in realtà prediligo non sono loro, ma la storia. Tutti i registi fanno film belli e film brutti. Quello che voglio è trovarmi in storie belle.
Sa cosa mi è piaciuto di questa intervista? Che non finge mai di essere fintamente modesto. Ha un obiettivo, sa come perseguirlo e si vede.
Lo spero. Sogno questo mestiere, di farlo, anche mentre ci sono dentro. Sono ambizioso. E credo che un giorno sarò in grado di dimostrare di meritarlo.
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