L’Italia non s’è desta, ma Cannes è come sempre uno specchietto per le allodole

Finire fuori dal palmares di Cannes non è l'apocalisse, soprattutto da uno che è sbagliato dall'inizio alla fine come questo. Ma forse dovremmo imparare a "pesare" di più in certi ambiti e ad avere meno sudditanza psicologica

Ci risiamo. Andiamo in Francia in forze – Bellocchio, Moretti, Alice Rohrwacher – e torniamo a mani vuote. E scattano subito i cori disperati di chi ai premi nei festival, in particolare quelli internazionali – anzi, diciamo la verità, al palmares di Cannes dei nostri cugini francesi, verso cui manteniamo quella sudditanza psicologica che superiamo solo sui campi da calcio -, affida il destino del nostro cinema.

Un atteggiamento provinciale che non abbandoneremo mai e che nasce anche dal fatto di essere un’industria monca, di non essere un Sistema e, appunto, come nello sport, che ha lo stesso problema ma più soldi, aspettiamo i grandi appuntamenti e li riteniamo il termometro della salute di un settore, perché nel bene e nel male sono vetrina deformante di ciò che vorremmo essere o temiamo di diventare.

Cannes, il Palmares non conta nulla

Eppure, nel 2008 vincemmo il secondo e terzo premio in Costa Azzurra con Garrone e Sorrentino, in uno degli anni peggiori per il cinema italiano e quasi sempre questi exploit sono in controtendenza rispetto al segno più o meno alla voce incassi (o anche a quella “indice di gradimento”). Allora dominavano cinepanettoni, Pieraccioni e persino Moccia al box office, Gomorra finiva fuori dalla top ten con 10 milioni di euro (bei tempi), ma noi ci sentivamo rassicurati da quel risultato che definivamo straordinario, ma che non valorizzava adeguatamente due dei nostri capolavori (Il divo e appunto Gomorra) a favore di una pavida Palma d’oro data a La Classe di Laurent Cantet, filmato compilation sulla (dis)integrazione nella scuola francese.

E il punto è proprio questo, continuare a pensare che nove giurati, egomaniaci e, in questo caso, quasi tutti con almeno un film da regista alle spalle (e sappiamo che chi dirige vede solitamente pochissimo cinema), possano giudicare con equilibrio più di 20 film diversissimi tra loro per cultura, fattura, visione e pensiero, è come immaginare che si possa eliminare la fame nel mondo: utopico e infantile almeno quando Di Maio che dal balcone di Montecitorio urla “abbiamo abolito la povertà!”.

Guardando questo palmares, poi, c’è quasi da essere orgogliosi di non farne parte: il film di Justine Triet, che sconta anche il politicamente corretto di cercare di premiare una donna dopo decenni di maschilismo pregiudiziale, verrà dimenticato entro Natale; il tombolino, il premio di consolazione dato a Kaurismaki è tragicomicamente offensivo e così grottesco che neanche lui avrebbe potuto pensarlo in un suo film per uno dei suoi sfortunatissimi protagonisti; il riconoscimento alla miglior regia a Tran Anh Hung per il pur bellissimo The Pot-au-feu ha senso quanto quello alla sceneggiatura dato ad Alice Rohrwacher a Lazzaro Felice nel 2018, opera meravigliosa ma non certo per quello.

Emir Kusturica, che nel 2005 da presidente della giuria di Cannes, premiò L’Enfant dei Dardenne, confessò candidamente – dopo che molti giurano di aver temuto che uccidesse la protagonista del poster di quest’anno, Catherine Deneuve – che “in questi grandi festival, con giurie con così tante personalità forti, il presidente deve fare la sintesi di posizioni radicalmente diverse e alla fine non vince il migliore, ma di solito quello che non è dispiaciuto a tutti e non di rado è il più innocuo”.

Allora tutto a posto così? Qualcuno potrebbe definire questo corsivo come la versione cinematografica de La volpe e l’uva, altri come uno snobistico atteggiamento  nei confronti dei grandi appuntamenti. Nessuna delle due: di sicuro ci manca la capacità di pesare all’estero, siamo ossessionati dall’esterofilia e dal riconoscimento altrui, ma dagli Oscar in giù (e pure prima agli Academy i nostri successi recenti li dovevamo, dispiace ricordarlo, ad Harvey Weinstein, non certo a noi stessi) non c’è la capacità di contare, di riuscire ad avere rilevanza come industria e come autori. Rimane assurdo come Marco Bellocchio venga costantemente ignorato a queste latitudini, mentre il premio di cinque anni fa ad Alice Rohrwacher e la presenza di Julie Ducurnoau a Nanni Moretti hanno chiuso loro la possibilità di vincere qualcosa. Ma noi invece di rimanere freddi e immaginare questo risultato ci disperiamo per la stroncatura a Il sol dell’avvenire di Peter Bradshaw, che ha una penna velenosa e a volte arguta, ma la serenità di giudizio di Vittorio Feltri.

Un tempo c’era FilmItalia (che ha cambiato diversi nomi) che fin dalla selezione sapeva accompagnare i direttori dei grandi festival verso scelte idonee alle loro rassegne, produttori di caratura internazionale pesanti e pensanti, una capacità di essere internazionali e quindi di pesare nell’immaginario che ora, invece, è decisamente marginale. Ecco, piuttosto che disperarci per una Palma o per premi collaterali non vinti, dovremmo pensare a questo nostro delegare a francesi e anglosassoni il destino del nostro cinema all’estero, in modo passivo e un po’ vittimista, senza saper essere invece padroni del nostro tempo e del nostro futuro.