Poco più di venti gradi di temperatura media, arrivando da un paese in cui al Sud si brucia e al Nord si annega tra pioggia e grandine. Già la temperatura, a Locarno, sembra fantascienza. Così come la tranquillità con cui un’edizione epocale – finisce l’era Marco Solari, presidente che ha portato il Locarno Film Festival a conquistare il mondo, arriva la mecenate e collezionista d’arte Maja Hoffmann – viene vissuta da questa comunità cinefila e colta, capace di trasformarsi per dieci giorni nella “capitale mondiale del cinema d’autore”, come orgogliosamente si autodefinisce.
E l’apertura di questa edizione di Locarno è degna della fama del festival: L’étoile filante, che segna l’esordio quest’anno della Piazza Grande, era una certezza già quasi sulla carta. Partorito dal duo folle e geniale formato da Dominuque Abel e Fiona Gordon, registi, sceneggiatori e attori belgi che hanno dato una nuova accezione alla parola “coppia” – vivono e lavorano insieme e hanno persino la pagina Wikipedia in comune -, quest’opera è uno dei migliori esempi della cinematografia di Bruxelles e dintorni, da almeno due decenni in forma smagliante, dai Dardenne a Jaco Van Dormael in giù. E se tempo fa da quelle parti ci avevano insegnato che Dio esiste e vive a Bruxelles, la coppia Abel-Gordon ci dice che la capitale belga è anche piena di poveri cristi, impegnati in una battaglia quotidiana con la vita, tra il tragico e il grottesco. Grammatica perfetta per un popolo malinconicamente ironico come quello belga.
La storia è quella di Boris – “si chiamano tutti così, i baristi de L’étoile filante“, che scopriamo subito essere uno scombinato pub – uomo apparentemente mite con un buco nero nel suo passato di attivista politico, che corrode lui, il suo arcinemico con un braccio meccanico e chiunque, alla fine, si trovi a percorrere, intercettare, provare a modificare il suo cammino. Sua moglie, probabilmente per lo stesso senso di colpa, si è reinventata detective privato, dopo essersi separata da lui. Ma non dai suoi, dai loro, incubi.
Sembrerebbe un noir, neanche troppo originale. Ma dalla prima scena, in cui un uomo finge noncuranza ordinando una birra, e poi estrae una pistola provando l’esecuzione più improbabile della storia, si capisce che siamo alle prese con un mondo folle, di meschinità incrociate e sogni infranti prima ancora che prendano forma. E soprattutto di assassini troppo incapaci, tanto che l’unico che ha ammazzato qualcuno, lo ha fatto perché la vittima faceva gli straordinari. Abel (Boris) e Gordon (la moglie) sono irresistibili nell’affrontare questa storia sempre nel modo più teneramente sbagliato: il primo con una passività quasi keatoniana, la seconda con un piglio caotico e disordinato come il suo look. Così come Kayoko, che cerca l’amore e trova la sindrome di Stoccolma (o di Lima, deve ancora capirlo), e Tim, esecutore di piani pensati troppo male per riuscire. L’ironia nasce dalla trovata più facile, l’esistenza di un sosia – Dom, uomo depresso e spaurito – che consegna alla commedia, insieme al cattivo (che è solo un buono che è stato sfortunato) tutto il suo lato slapstick, coreografico, corporale, con danze assurde mentre cercano, Kayoko e Tim, di cambiargli i vestiti. O proprio in quel pub, quando le periodiche rese dei conti diventano buffe danze.
Sembra sempre sull’orlo di perdersi L’étoile filante, troppo innamorato di sé e delle proprie idee, ma quando è sul punto di disperdersi, si ritrova grazie a un’intuizione. A volte per una scena recitata meravigliosamente – quella dell’infarto di chi vorrebbe uccidere e rischia di morire – altre per una sterzata narrativa e emotiva in cui la sequenza da buffa diventa dolente – la verità non è sempre entrambe le cose? – e infine così pazza da usare persino il time lapse per rompere ogni tipo di credulità, ennesima sfida al pubblico di un film che torna all’elementarità delle comiche di inizio secolo (scorso) per raccontare una storia che mette le radici in una profondità perduta.
Il tutto incastonato in un cinema, quello belga, che insieme a quello greco, qui e ora, ha una grammatica originale e incredibilmente riconoscibile, senza mai essere prevedibile.
La Piazza Grande di Locarno, insomma, inizia col botto. Letteralmente.
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