Malqueridas, postare per sopravvivere: il carcere visto dallo smartphone delle detenute cilene

Nel documentario di Tana Gilbert, alla Settimana della Critica, la quotidianità della prigione ripresa dai cellulari introdotti illegalmente dalle recluse: "Queste donne si riprendono perché non vogliono essere dimenticate"

In prigione è vietato usare telefoni e apparecchiature elettroniche. Alle detenute cilene non importa, lo fanno lo stesso: usano i cellulari, introdotti illegalmente, e riprendono la loro quotidianità da recluse, postandola su Facebook. È così che Tana Gilbert, classe 1992, ha scoperto le loro storie: semplicemente navigando in rete e visualizzando i loro profili. Foto e video che le ritraggono in momenti di intimità, insieme ai figli, senza censurare le violenze della polizia. È questo il materiale al cuore di Malqueridas, documentario nella sezione della Settimana della Critica, realizzato interamente con contenuti audio e video raccolti da Gilbert prima di essere cancellati, come avverte la didascalia in apertura. Una serie di ricordi che illustrano la vita delle donne cilene in prigione e la necessità di interrompere la catena di violenza e criminalità che lega più generazioni.

Cosa l’ha spinta a raccontare il mondo del carcere?

La mia esperienza personale. Ho deciso di concentrarmi su ciò che accade alle donne in Cile quando vengono messe in prigione. Nella cultura latinoamericana le madri sono ila parte più importante della famiglia. Il 92% delle prigioniere cilene ha figli, e il sistema carcerario non tiene conto degli effetti a lungo termine della loro assenza nello spazio domestico.

Come ha ricevuto i materiali mostrati nel documentario?

Nel 2017 ho accidentalmente trovato su Facebook dei profili di donne in carcere che caricavano foto e video del loro quotidiano L’algoritmo ha fatto il resto. Sono stata invasa da riprese col cellulare realizzate illegalmente all’interno delle prigioni. Nel 2018, con l’aiuto di diverse organizzazioni, abbiamo tenuto dei workshop nelle carceri femminili, che ci hanno permesso di entrare ancora più in contatto con alcune di loro. Per il documentario abbiamo lavorato solo con le donne che avevano finito di scontare la pena, non erano più recluse e potevano darci il materiale liberamente.

Non è sorprendente la facilità con cui ha ottenuto il permesso di utilizzare le loro foto e i video?

Per loro era importante rivedersi. Infatti abbiamo scelto di non nascondere nemmeno i volti dei bambini. Le immagini delle donne incarcerate ci permettono di entrare in uno spazio per loro intimo, dove possono trascorrere anche sei, sette o dieci anni. Il cinema aumenta il valore di quel ricordo: nulla verrà dimenticato. Anche per questo ogni fotogramma del film è stato stampato e digitalizzato. Volevamo creare qualcosa di concreto, di fisico.

Come interpreta il desiderio di riprendersi delle detenute?

Tutti noi oggi riprendiamo la nostra vita continuamente. I momenti di svago, i nostri amici, la famiglia. Registrare ciò che ci accade rende autentica la nostra realtà. Le dà potere.

Perché non raccontare la storia di una sola donna?

In Malqueridas mostriamo quante più versioni possibili di maternità. Il documentario è costituito dai racconti di circa una trentina di donne, tutti raccontati dalla voce di Karina. Naturalmente la storia di ciascuna ha una propria specificità, ma ad unirle sono percorsi familiari e di violenza molto simili.

Qual è il problema maggiore delle carceri cilene?

Rispondere “i poliziotti” sarebbe riduttivo. Il vero problema è nel sistema penitenziario nel suo complesso. Possiamo definirlo il “villain” del film, con cui le detenute devono confrontarsi per sopravvivere. Per questo cercano con tutte le loro forze di stringere legami e relazioni, per colmare un bisogno d’amore. Tutti, sia dentro che fuori dal carcere, vogliono trovare qualcuno con cui condividere pensieri e sentimenti. Speriamo con questo film, di aprire un dialogo sociale e politico col Cile e con il mondo. E, insieme, di portare avanti un’idea di cinema, recuperando materiali che, per alcuni, possono essere considerati di basso livello. Il nostro compito è prenderli, e farci un film.

Cosa si augura che trasmetta il film al pubblico?

L’umanità nelle storie di queste donne. È importante cambiare la percezione che la società ha di chi è dietro le sbarre. Dobbiamo fare luce sui soprusi e le violenze che subiscono e ribadire l’importanza della reintegrazione nella società quando escono dal carcere. Le donne che sono state in prigione finiscono col tornarci,  anche i loro figli spesso si danno alla delinquenza. È una dinamica che, nel nostro piccolo, vorremmo provare a fermare.