A Marco Martani piace il genere. Lo ha dimostrato con il suo giallo d’esordio, Cemento armato (2007). Anche con i viaggi temporali del secondo La donna per me (2022), commedia romantica con Andrea Arcangeli e Alessandra Mastronardi. E, per la sua terza volta da regista, ha indagato il noir, utilizzato come cavallo di troia per veicolare temi e messaggi che racchiudono i traumi di una generazione. L’uccidere i padri che Freud ha teorizzato e che i personaggi di Eravamo bambini provano a mettere in atto – in anteprima nella sezione Panorama Italia di Alice nella Città 2023.
Un cast corale di primissima scelta da Lorenzo Richelmy, rapper tatuato, a Lucrezia Guidone, che cerca sollievo nel sesso occasionale. Tutti riuniti da una sola rabbia, insieme anche a Alessio Lapice, Federico Russo, Giancarlo Commare e Romano Reggiani.
Eravamo bambini è un noir, ma non ha uno stampo classico. Cosa lo rende moderno?
I tre diversi piani temporali della sceneggiatura, che si fondono insieme in uno solo. Quasi non si ha più la bussola per capire quale è il prima e quale il dopo. Gli elementi che riemergono fanno parte delle tre linee che diventano una, creando multi-strati che contribuiscono alla modernità rispetto ai noir classici.
Il motore della storia è il trauma. Come si cresce se si rimane segnati a vita?
Il film parte proprio da questo, dal trauma. La base è il testo teatrale Zero di Massimiliano Bruno, al cui centro c’è un gruppo di amici che rimane traumatizzato da un evento che sconvolgerà le loro esistenze. Un conto, però, è rappresentare il trauma in un monologo, un altro è stenderlo in sceneggiatura. In ogni personaggio, poi, quel trauma si è sviluppato in modo diverso: c’è chi è pieno di rabbia, chi dipendente dal sesso, chi non sa rinunciare alle droghe. E per me il bello è stato poter raccontare tutte queste vite borderline connesse tra di loro, come fosse un’unica persona splittata in varie personalità.
Così che ogni spettatore abbia quella in cui riconoscersi?
Tutti abbiamo in noi della rabbia, delle pulsioni sessuali e delle dipendente che cerchiamo di tenere a bada. Io so per certo che se avessi una dipendenza mi ci ficcherei dentro senza alcun freno.
Ad esempio quale?
Per i videogiochi sicuro.
È stato un aspetto su cui ha lavorato con i suoi attori? Renderli veri e propri caratteri?
Sì, ma era già stato messo su carta. Durante i provini l’obiettivo era veder spiccare le caratteristiche specifiche che cercavo in ognuno per capire quale fosse l’attore o l’attrice che sapesse impersonarle meglio.
E la loro umanità?
È nell’essere la rappresentazione di una generazione. Venti/trentenni un po’ allo sbando. Il trauma che vivono è la metafora di quei genitori-antagonisti, attaccati a degli ideali che non esistono più e in cui i giovani non si riconoscono. Figli del boom economico che hanno preso decisioni sbagliate, danneggiando chi è venuto dopo di loro.
Proprio come faceva il genere, nascondere una tematica dietro determinate atmosfere.
Ho una passione per i film di genere anni settanta e ottanta, specialmente statunitensi. Il gioco, nell’horror come nel noir, era utilizzare delle regole, al cui interno si poteva nascondere un messaggio. In Eravamo bambini è il desiderio di una generazione schiacciata e perduta, intenzionata a fare qualcosa.
Che la risposta sia che alla violenza bisogna rispondere con altra violenza?
Ci sono tanti modi per vedere il finale del film, anche tante verità. È questo il bello del cinema di genere: l’opportunità di avere tanti significati quanti sono gli spettatori.
I protagonisti rimangono amici nel tempo. Anche le amicizie restano, un po’ come il trauma?
Le amicizie del mare sì. Creano una bolla in cui vivi per un periodo lontano dalla vita vera, dalla quotidianità. È l’amicizia perfetta per una parentesi estiva che viene vissuta come un sogno. E cosa può esserci di peggio di un sogno spezzato? Ci sono amici speciali uniti per sempre da un cordone ombelicale che rende i rapporti indissolubili, anche a distanza di vent’anni.
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