La prima cosa che è saltata all’occhio in redazione, all’arrivo della notizia della selezione de Il vento soffia dove vuole di Marco Righi, un film italiano nel concorso del Festival internazionale del cinema di Karlovy Vary, è il profondo stupore nel constatare che Marco Righi, regista pieno di talento che ebbe un ottimo riscontro di pubblico e di critica con il bellissimo I giorni della vendemmia nel 2010, abbia dovuto aspettare così tanto tempo per la sua opera seconda.
“Trovo molto strano che un cineasta come lui sia stato fermo tredici anni senza riuscire a trovare il modo di tornare a girare – sottolinea il suo produttore, Emanuele Caruso, di Obiettivo Cinema – nonostante l’ottimo riscontro del suo esordio. E comunque anche per questo film abbiamo avuto un low budget, perché con 196.000 euro una produzione media gira due giorni, noi invece ci abbiamo chiuso un film intero girato in tre settimane. E con questo no budget, perché è più corretto definirlo tale, siamo stati selezionati a uno dei festival più importanti del mondo. Alla critica cinematografica, come al settore tutto, dovrebbe essere chiaro, quando giudicano i giovani autori, il budget che hanno avuto. Ci lamentiamo che a Cannes non ci siano giovani registi italiani, però poi uno come Marco non raccoglie neanche 200.000 euro per un’opera come questa”.
Nel frattempo c’è in piedi una trattativa con un importante distributore italiano per la distribuzione in sala, mentre per l’estero “il film l’ha acquisito l’internazionale sales TVCO che l’ha visto e molto apprezzato”. A un passo dall’essere selezionato per la Berlinale scorsa, se n’è innamorato il direttore artistico del KVIFF (Karlovy Mary International Film Festival) Karel Och che l’ha bloccato da mesi e lo ha inserito nella sezione principale.
“Ho visto tanti, troppi film italiani dimenticati in sezioni parallele o secondarie di grandi rassegne internazionali. In un modo un po’ provinciale dimentichiamo sempre la centralità di festival come Rotterdam, San Sebastian e soprattutto Karlovy Vary, appunto”. Che ha il merito di non aver paura di film d’autore rigorosi e difficili come Il vento soffia dove vuole, la storia di un giovane uomo devoto che incontra un uomo solitario e scontroso, senza dio. E a immaginare la trama forse basta ricordare che il titolo è un pezzo della frase attribuita a Gesù nei confronti del suo discepolo, l’ex fariseo Nicodemo dal Vangelo di Giovanni (3,7-15), al momento della sua conversione notturna, a cui ribadisce poi “dovete nascere dall’alto”.
Marco, dove, quando, come nasce Il vento soffia dove vuole?
Abbiamo girato a maggio dello scorso anno, in tre settimane, nel reggiano. A ridosso dell’Appennino tosco-emiliano, dove lavoro e vivo: tra Carpineti, Castelnovo de’ monti e Ventasso. Nasce anche grazie a una casa di produzione di Alba, Obiettivo Cinema (e al Bando Produzioni Nazionali della Regione Emilia Romagna), che mi aveva già seguito all’esordio e infine da riflessioni, pensieri, vissuti personali.
Cosa racconta questo film?
Il film è la storia di Antimo, interpretato da Jacopo Olmo Antinori, già in Io e te di Bernardo Bertolucci e ne I nostri ragazzi di Ivano De Matteo (ma anche nelle serie Diavoli e I Medici): vive in un borgo disperso e senza tempo. Perché questo vuole essere un film contemporaneo ma al contempo avulso dalla modernità. Questo ragazzo vive con il padre, condividendone svogliatamente il lavoro, e con la sorella minore (Yle Yara Vianello, già in Corpo Celeste e La chimera di Alice Rohrwacher). È molto devoto, sente dentro di sé un’innata spiritualità e religiosità: il tempo in cui è ambientata l’opera è quello della settimana santa e proprio la Domenica delle Palme incontra Lazzaro (Fiorenzo Mattu, già in Su Re di Giovanni Columbu, La Stoffa dei Sogni di Gianfranco Cabiddu e Il muto di Gallura di Matteo Fresi) distante da lui culturalmente e anagraficamente, che però stimola la sua curiosità anche per quel nome così evocativo per lui. Inizia a frequentare questo signore solitario, ateo e molto semplice, cercando di indottrinarlo e di convertirlo. Alla fine nascerà un legame di amicizia profondo che porterà entrambi su sentieri inesplorati.
Quali sono i riferimenti del tuo cinema, soprattutto per quanto riguarda quest’opera?
Ho fatto una ricerca della sacralità molto profonda, personale e artistica. A livello cinematografico è un po’ un mix di un’esperienza non autobiografica ma sicuramente personale, alcuni input nati dalla cronaca e il saggio Il trascendente nel cinema di Paul Schrader, uno studio molto interessante e approfondito su quello che è un vero e proprio genere di quest’arte. Quindi ne Il vento soffia dove vuole, con le dovute e debite proporzioni, ci sono Robert Bresson, Dreyer, Ozu, ma anche Bergman. E i più recenti Ida di Pawel Pawlikowski e Lourdes di Jessica Hausner.
Ha parlato di esperienze personali. Le va di condividerle?
C’è stato un periodo in cui quel tipo di sacralità mi ha contagiato, questo film parla di famiglia, di provincia, di incontri rilevatori. Poco prima dei 18 anni ho vissuto in un piccolo paese collinare dell’Appennino che racconto nel film, un luogo nel quale c’era una fede molto forte, si sentiva nella comunità, un sentimento collettivo che aiutava un raccoglimento personale che ho sentito profondamente. E ho pescato molto in quel periodo della mia vita per raccontare questa storia, a vicende mie e atteggiamenti che ho visto, conosciuto e provato o subìto. Naturalmente nel film poi li ho esacerbati, estremizzati. Se vuoi ne era influenzato anche Elia de I giorni della vendemmia, è l’altro lato della stessa medaglia di Antimo. Spesso la narrazione è metropolitana, ma ci dimentichiamo che esiste una forma di adolescenza molto diversa da quella cittadina, per percorsi emotivi e tempi dilatati. Nel mio esordio c’era una torrida estate italiana a rendere il percorso ancora più rarefatto: Elia viveva un’educazione sentimentale in cui cercava una sorta di ribellione per distanziarsi da origini e famiglia, per Antimo c’è dio, lui risponde alla sua linea d’ombra in modo più ideologico e assolutista.
Non aiuta, forse, l’assenza della madre
Lo hai notato (sorride, ndr). Sì, è anche un film che vuole parlare dell’assenza, la mancanza della madre è quel lato oscuro di ambiguità in cui vive il protagonista, ma rischio lo spoiler se vado avanti. Dico solo che nella sua vita e anche nella sua religiosità questa mancanza ha un ruolo, pure importante, che porterà poi a un evento preciso e determinante.
Un colpo di scena. Insolito nel suo consueto rigore
Nella scrittura ho cercato un’atipicità strutturale, non la consueta tripartizione narrativa e temporale ma più una emotiva ed antropologica: in Il vento soffia dove vuole la divisione infatti è tra quotidianità, scissione e stasi, uno stato tra l’estasi e l’ascesi che vuole coinvolgere nella parte finale anche lo spettatore, permettendogli idealmente di continuare l’esperienza dei protagonisti. Anche per questo il film cerca il silenzio, alla fine, per favorire quello che, appunto, è un percorso di trascendenza. Poi, è vero, in questo film cerco un rigore potente della messa in scena, il riferimento anche a Bergman è inteso non nel senso presuntuoso del termine ma di ricerca di un cinema meno empatico e più distante e algido, così da cercare qualcosa che vada al di là del romanzo di formazione o del buddy movie, raccontando l’esperienza specifica, sacrale, spirituale. Vado contro la nostra cultura cattolica romana che personalizza le storie sacre, qui c’è un racconto più complessivo e organico che, lo so, non concede molto allo spettatore né pretende di intrattenere. Anche per questo siamo felicissimi di andare a Karlovy Vary, davvero non ce lo aspettavamo.
Passiamo dal sacro al profano, al diluvio universale che ha colpito la sua regione, un evento climatico che ha compiuto una strage e messo in ginocchio l’Emilia Romagna. Pensate di fare qualcosa per esprimere solidarietà alle popolazioni colpite?
Sicuramente. Noi siamo stati fortunati, a Reggio Emilia sono state minime le problematiche. Vorremmo sicuramente sensibilizzare quante più persone possibili senza però speculare in alcun modo su una tragedia simile. Vogliamo trovare il modo giusto per stare vicino alla comunità.
C’è già un nuovo progetto in vista?
Sì, stiamo tentando lo sviluppo della mia opera terza, che non avrà in comune il genere con i precedenti, ma sicuramente il territorio. Sperando per una volta di avere un po’ più di tempo per girare: per I giorni della vendemmia siamo stati due settimane sul set, questa volta tre. Spero per il prossimo lungometraggio me ne siano concesse almeno quattro! Scherzi a parte, mi piacerebbe per una volta avere più tempo, più risorse, magari una troupe più nutrita.
A Cannes Nanni Moretti ha detto che ama scoprire giovani autori che fanno tanto con poco
Posso confermarlo, io 13 anni fa sono stato uno dei suoi Bimbi Belli (nome della rassegna estiva del Nuovo Sacher dedicata alle opere prime, organizzata proprio da il regista de Il sol dell’avvenire). Spero veda e apprezzi anche questo!
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