Al festival del Cinema Ritrovato, che si sta svolgendo a Bologna organizzato come sempre dall’omonima Cineteca, è stato possibile recuperare un film che in Italia conoscono veramente in pochi: Cry, the Beloved Country di Zoltan Korda (1951), film britannico restaurato a cura di StudioCanal. Chi ha la fortuna di essere a Bologna è sicuramente convinto di aver visto un film altrimenti invisibile (ci sono altre due proiezioni, venerdì 30 giugno e sabato 1 luglio). Ma questa è una storia che contiene tante altre storie, molto affascinanti, quindi andiamo con ordine.
Punto primo: il film non è affatto visibile solo a Bologna, ma sta su Netflix. Sorpresi, eh? Aspettate, le sorprese sono solo iniziate. Diciamo che è una di quelle chicche sepolte nelle piattaforme, che l’algoritmo non vi segnalerà mai: un incunabolo visibile… in 190 paesi, per citare Nanni Moretti, ma grasso che cola se l’avranno visto 190 persone. Chi scrive l’ha cercato digitando il titolo inglese – e non l’ha trovato! Ma sapendo che c’è, e avendo la testa dura, abbiamo digitato il nome del regista, Zoltan Korda. Ed è apparso. Con la foto sbagliata! Se andate sul profilo Netflix del film, vi compare l’immagine di un remake realizzato nel 1995, con lo stesso titolo. Lo “strillo” che Netflix usa per sedurre gli abbonati è la bella faccia di James Earl Jones, protagonista del remake, grande interprete afroamericano che nel 1951 aveva vent’anni e forse nemmeno pensava di diventare un attore. Ma il film, quello che potete vedere, è l’originale del 1951.
Uno splendido bianco e nero
Seconda sorpresa: vi renderete immediatamente conto che su Netflix il film dura 107 minuti. A Bologna hanno proiettato una copia di 95 minuti. Direte: ok, su Netflix non c’è il restauro, sarà una vecchia copia ridotta in chissà quale stato. Nossignori: come da titoli di testa, è la copia di StudioCanal, solo che ha 12 minuti in più, ed è di qualità altissima, con una splendida fotografia in bianco e nero (di Robert Krasker, premio Oscar per Il terzo uomo). Mistero. A questo punto, guardiamoci questo film. Cosa racconta?
Tenetevi forte, la terza sorpresa è la più potente. Cry, the Beloved Country è una rarissima produzione britannica girata in Sudafrica quando l’apartheid, in quel paese, era ancora durissimo. Ed è un film contro l’apartheid! È tratto da un romanzo di Alan Paton, che era un attivista (bianco) dei diritti dei neri, un fiero militante anti-apartheid. Ed è interpretato prevalentemente da attori neri, fra i quali spicca un 24enne Sidney Poitier al suo secondo ruolo importante (in America aveva interpretato solo Uomo bianco tu vivrai, nel 1950). Racconta la storia di un pastore protestante, africano (lo interpreta Canada Lee, vero nome Leonard Lionel Cornelius Canegata, anch’egli americano, classe 1907: un attore esperto che negli Usa godeva di vasta popolarità), che da una sperduta fattoria nel Natal si reca a Johannesburg per cercare la sorella e il figlio, entrambi inurbati e spariti nel nulla. Poitier è un suo collega, un giovane sacerdote che lo aiuta nella ricerca. L’uomo scoprirà che la sorella è diventata una prostituta e il figlio, dopo aver passato un breve periodo in riformatorio, è diventato un piccolo delinquente.
Le bidonville di Johannesburg
Giuriamo che, sapendo poco del film, quando abbiamo cominciato a vederlo pensavamo che avremmo visto una produzione “da camera”, girata negli studi di Londra. Quarta sorpresa: gli interni sono stati girati a Londra, certo, ma gran parte del film è girata davvero in Sudafrica, e il passaggio dagli abbaglianti esterni del Natal alle bidonville della vera Johannesburg è ubriacante.
Korda ha lavorato con spirito che potremmo definire “neorealista”: ha portato la macchina da presa, probabilmente per la prima volta, nelle township di Johannesburg, riprendendo gente vera e catturando la povertà degli africani in modo diretto e allucinante. In certi momenti sembra di vedere le borgate di Accattone, film che Pasolini ha diretto dieci anni dopo. Cry, the Beloved Country è un atto d’accusa contro l’apartheid durissimo e insospettabile. Ed è doppiamente importante che tutto questo sia contenuto in un film prodotto dalla società London Films, quella che come logo aveva il Big Ben. La società dei fratelli Korda, sui quali bisognerà dire due parole.
I Korda erano tre
I Korda erano tre, Alexander, Zoltan e Vincent, e venivano dall’Ungheria. Alexander era il maggiore, ed è il più famoso: grande regista e grande produttore. Zoltan però è stato il regista più prolifico, e forse per le sue origini cosmopolite è sempre stato il “cineasta dell’Impero”. Aveva lavorato (come i fratelli) in Ungheria e in Germania prima di arrivare in Gran Bretagna, e di seguire poi il fratello a Hollywood.
Aveva un grande spirito d’iniziativa ed era stato ufficiale di cavalleria: forse era più un avventuriero che un cineasta. Girò molti film in Africa e in India, dovunque sventolasse la Union Jack. Nel 1935 diresse il grande attore-cantante nero Paul Robeson nel famoso Bozambo, triste titolo italiano di Sanders of the River: la storia di un ufficiale britannico che negli anni ’30, in Nigeria, si allea con un capo locale per combattere i mercanti di schiavi. Nel 1937 co-diresse La danza degli elefanti in India con il grande documentarista americano Robert Flaherty. Nel 1939 girò in Sudan il capolavoro Le quattro piume, forse il più bel film sull’esercito britannico in azione nelle colonie.
Come fregare l’algoritmo
Insomma, Korda era un figlio (adottivo) dell’Impero ma aveva forte il senso della giustizia, e sarebbe andato dovunque per girare un film: l’idea di intrufolarsi nel Sudafrica dell’apartheid non lo spaventò minimamente. Avrebbero avuto qualche motivo di timore in più gli attori afroamericani, che non avrebbero mai ottenuto il permesso per lavorare in quel paese. Ma Korda ebbe un’idea geniale: dichiarò alle autorità sudafricane che Lee e Poitier erano i suoi “servi”, e in sostanza girò il film di nascosto. Vedere oggi Cry, the Beloved Country è un atto di giustizia: serve a ricordare l’orrore di uno dei regimi più assurdi e feroci della storia, e a rendere omaggio a un pugno di artisti che hanno realizzato uno dei film più improbabili e coraggiosi di sempre.
E per vederlo, ripetiamo, non serve andare a Bologna: basta fregare l’algoritmo, e in fondo anche questo è un atto di giustizia.
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