Una donna è sempre una donna finché non rimane incinta. Una donna che rimane incinta diventa automaticamente una madre. Non c’è via di mezzo. Non c’è via di uscita. Una donna è sempre una donna anche quando vuole fare la scrittrice. E quando vuole fare la scrittrice deve dimostrare di meritarlo ogni giorno, a se stessa e agli altri (lettori, amici, editori). Quando una donna, che è anche una scrittrice, rimane incinta, smette di essere una donna e smette di essere una scrittrice. Resta solo una madre. È tutto ciò che non voleva Jay (Han Hae-in), è esattamente ciò che le capita.
In Birth – in concorso al Torino Film Festival 2023 – la regista e sceneggiatrice Yoo Ji-young mostra come una gravidanza indesiderata può rimanere tale dall’inizio alla fine. Non si deve cambiare per forza idea, non si aspetta di vedere come andranno i nove mesi di gestazione per sperare miracolosamente che quel desiderio primo – il non voler diventare genitore – cambi improvvisamente. E lo fa non dimenticando che, prima di tutto, non sta stendendo una tesi, ma sta pur sempre realizzando un film.
La pellicola dell’autrice coreana, al secondo lungometraggio dopo Duck Town (2017), mette la vita della protagonista Jay in relazione a quella del ragazzo Geonwoo (Lee Han-ju), insegnante in una scuola privata di inglese, che alla scoperta della gravidanza prende la decisione di aprire una filiale – su spinta del suo capo – e dare una direzione alla propria vita. È lui il vero lavoratore, sia mai che scrivere (e basta) venga considerato un mestiere.
Birth: un figlio, due strade separate
È da un evento così significativo, solitamente portato ad unire due persone, che la regista parte per mettere in scena il distaccamento progressivo dei personaggi, tra di loro e da se stessi. Jay non riesce più a scrivere. Sono gli ormoni, le dicono. Rimanere incinta cambia il tuo talento, oltre che la personalità. La sua tendenza al bere diventa sempre più pronunciata, non le importa che sta per partorire. Lei quel bambino non lo voleva avere. Lei voleva solo scrivere. Geonwoo, invece, diventa responsabile. O, almeno, è ciò che crede. Si rimbocca le maniche, passa tutto il tempo a costruire la nuova scuola e lascia indietro i colleghi maltrattati. Finché anche lui non si sentirà minacciato. Proprio quando il bambino sta per arrivare.
Birth mostra un progressivo allontanamento tra i protagonisti, che nel film intraprendono due strade parallele, destinate a incontrarsi ogni tanto in una casa che non condividono nemmeno più. Ed è così che li vivono gli spettatori. Distanti, sconnessi, due rette indipendenti che avvalorano il concetto alla base del film: non è detto che un figlio debba riempire (o sanare) dei vuoti, a volte può fare l’esatto contrario.
Perso il focus delle loro esistenze, come coppia e come individui, nell’opera Yoo Ji-young evidenzia come la società taccia d’egoismo chi non voglia mettere al mondo un’altra vita e che nonostante si cerchi di liberarsi dalle catene che la società vuole imporci, a volte siamo costretti a rimanerne incatenati. Altre volte invece, se si è fortunati, basterà solo aspettare. Perché dare del menefreghista a qualcuno è il primo modo per stanare il menefreghismo che coviamo in noi stessi. E forse, un giorno, quell’egoismo saremo noi a reclamarlo. Bisogna solo vedere cosa ci riserverà.
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