Quante volte hanno ferito i nostri sentimenti? Alla protagonista Beth, l’attrice Julia Louis-Dreyfus, è capitato quando il marito Don, interpretato da Tobias Menzies, le ha mentito sul suo ultimo lavoro, un libro di memorie. L’uomo le aveva giurato gli piacesse, mentre lei lo ha scoperto che ne parlava male con uno dei loro amici. Un duro colpo per la scrittrice che, per una bugia a fin di bene, metterà in discussione non solo il suo intero lavoro, ma anche la sua vita e il suo matrimonio. Il tutto con la solita pungente e frizzante ironia della penna di Nicole Holofcener, anche alla regia di A dire il vero, presentato in anteprima nazionale fuori concorso al Torino Film Festival 2023 e nelle sale italiane dall’8 febbraio 2024.
Qualcuno l’ha mai ferita parlando del suo lavoro? Si ricorda la prima volta che è successo?
Oh mio Dio, ma scherziamo? Da dove devo cominciare? Avevo scritto una sceneggiatura e stavo cercando un agente. Ne trovo uno a cui mandare lo script. Forse aveva visto un mio cortometraggio, perché mi risponde: “Sai, penso che dovresti abbandonare la scrittura e dedicarti solamente alla regia”. Il che non aveva minimamente senso, perché anche quello che avevo diretto lo avevo sempre scritto. Perciò sì, ricordo chi è stato e ricordo il suo nome, magari non so dove abita, ma credo che ogni artista quando è agli inizi si ricordi tutte le cose orribili che gli sono state dette.
Quale fu la sua reazione?
Non gli diedi retta e sono felice di non averlo fatto. È ovvio che col lavoro che faccio i miei sentimenti vengano feriti di continuo. Però sono arrivata al punto di capire subito quando a un produttore, a un attore o a chiunque altro non piace un mio film.
Ha sviluppato un superpotere?
Penso solo che la maggior parte della gente non sa mentire. Mi viene da dire: dai, su, sforzati un pochino di più! Ho anche capito quali sono le frasi fatte che si usano quando una cosa non ti è piaciuta. Ad esempio c’è “Che argomento interessante” oppure “Ti sei divertita a farlo?”.
Ricorda anche la prima recensione negativa ricevuta?
Sì, è arrivata con Parlando e sparlando. Fortunatamente il film ricevette un’accoglienza entusiasmante. Ma in una recensione scrissero: “Nicole Holofcener sembra aver scritto il film copiando le pagine del suo diario. Molte persone dovrebbero imparare a bruciarli, i propri diari”. Insomma, ma quanto si può essere meschini? Queste sono cose che possono incasinarti per tutta la vita. Nel corso della mia carriera, però, posso dire di aver ricevuto sufficienti recensioni positive per poter sopportarne anche di negative. Ovviamente se facessi un completo flop non riuscirei a superarle. Ma ammetto anche che alcune recensioni negative sanno essere molto intelligenti. Altre no, non lo sono affatto.
L’ironia potrebbe essere un’arma da usare per tentare di superare la nostra inadeguatezza nel momento in cui veniamo criticati?
Certo, io stessa affronto qualsiasi cosa ridendo prima di tutto di me e rimettendo in prospettiva qualsiasi tipo di considerazione mi venga fatta. E spero sia il tipo di ironia che riesco a trasmettere con i miei film. La protagonista di A dire il vero ci rimane male non per la critica in sé, ma perché il marito le ha mentito, mentre tutto ciò che desidera è la sua approvazione. Ma anche in questo non volevo che il film si prendesse troppo sul serio. Doveva essere divertente, anche commovente in alcuni casi. Voglio poter ridere dei miei personaggi come rido di me stessa.
In A dire il vero, ma anche in Copia originale (2018), ha trattato di due scrittrici. Quanto mette di lei in personaggi simili? In qualche modo è terapeutico?
Bhé, sicuramente Lee Israel non aveva bisogno di me (scrittrice e falsaria realmente esistita, ndr.). Era piena di sangue, di corpo, di anima. Però sì, ovviamente c’è sempre molto della mia personalità in molti personaggi che scrivo. In verità Beth di A dire il vero doveva essere un’attrice, ma quando Julia ha letto la sceneggiatura ha detto che non voleva interpretare una donna che faceva il suo stesso mestiere. Forse lo riteneva troppo auto-riflessivo, magari sentiva che sarebbe stato strano, troppo intimo. E andava bene cambiare il personaggio perché non si tratta del lavoro che uno fa, ma della necessità di venire accettati dagli altri, specialmente da chi amiamo.
Non dipende dal mestiere, ma la componente artistica centra sicuramente qualcosa.
È perché chi fa un lavoro creativo tende a connettersi profondamente con ciò che realizza. È come se ciò in cui ci stiamo impegnando fossimo noi stessi, in prima persona. Come se io fossi il mio film. Se dovessi girare un film Marvel e al mio partner non dovesse piacere penserei: “Va bene, lo capisco, non gli piacciono i film della Marvel”. Ma se non dovesse piacerli un film fatto completamente da me, allora non mi sentirei né apprezzata, né capita. È ciò che volevo esplorare con A dire il vero. Il personaggio di Tobias Menzies non contesta il contenuto del libro di memorie della moglie, ma la maniera in cui le ha riportate. E quando ci si espone così tanto in prima persona è ovvio che ci si senta imbarazzati se a qualcuno non piace ciò che hai fatto. Puoi avere una carriera di successo, fiducia in te stesso e tutto il resto. Ma è l’interiorità che viene ferita.
Perciò come fa con il lavoro degli altri? Ammette quando non le piace o è solo più brava degli altri a mentire?
Posso essere onesta. Se una cosa mi piace, ma ha bisogno di altro lavoro da fare sono a favore di una critica costruttiva. Se è qualcosa che non mi dice davvero nulla, allora non so davvero a cosa aggrapparmi. A quel punto mi limito ad augurare alla persona il meglio possibile. Anche perché chi sono io per arrecare dolore a qualcuno?
Se i suoi lavori sono così personali, come sceglie gli interpreti per i suoi film? Deve riuscire a sentire una connessione con loro?
Spero che siano fan dei miei film. Che vogliano davvero lavorare con me. Ovviamente non sempre è così. Credo di cercare persone che siano accoglienti, genuine, divertenti e calorose. Almeno per A dire il vero era fondamentale. In questo caso dovevano dare sul serio la sensazione di conoscersi e amarsi ed essere disposti a scherzare e a commuoversi. Non mi piacciono i manierismi, bisogna essere diretti, seguire l’istinto e non portare il proprio ego sul set. E poi sai, nessuno qui sta facendo grandi soldi, grandi trailer o grandi produzioni. Gli attori devono sentire di voler esserci. Devono avere voglia di giocare. E, quando è così, è fantastico.
È questo che ha trovato in Julia Louis-Dreyfus, un po’ il suo alter ego?
Dico sempre che è le versione più carina e più divertente di me. E va bene così! Ero un’amante di Seinfeld, lo guardo tutt’ora e quando mi hanno proposto per la prima volta di lavorare con Julia ho pensato: “Non ci credo, non può essere, non posso farlo”. Poi l’ho incontrata e siamo andate subito d’accordo. Abbiamo vissuto esperienze molto simili, dai figli fino al lavoro, e abbiamo scoperto di avere lo stesso senso dell’umorismo. Con Catherine Keener, invece, siamo molto, molto diverse, eppure ho avuto con entrambe la stessa sensazione: che potevano esprimere parti di me come nessun altro sarebbe mai stato capace.
Tra i suoi ultimi lavori c’è la collaborazione alla sceneggiatura di The Last Duel di Ridley Scott, attualmente al cinema con Napoleon. È lontano dal suo stile e genere, ma ha mai pensato di dirigere un’opera in costume con protagonista una forte personalità femminile del passato?
Non ho mai pensato di fare un film d’epoca. Mai e poi mai. A volte la gente mi critica perché scrivo di piccoli problemi quotidiani e contemporanei di persone bianche. Ma va bene così, è giusto che sia qualcun altro a raccontare Napoleone o Maria Antonietta. A me non verrebbe mai in mente e non mi piacerebbe forzare la mano. Poi è indubbio che è stato emozionato assistere alle riprese di The Last Duel. Non so quando mi ricapiterà di vedere un migliaio di cavalli che corrono in battaglia come in una danza. E se un giorno dovessi davvero farlo, decidere di dare a un personaggio d’epoca una personalità contemporanea.
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