La regista di Origin, l’afroamericana Ava DuVernay, avrebbe potuto cavarsela con un gesto che avremmo molto gradito: avrebbe potuto spedire, a ciascun inviato a Venezia, una copia del libro di Isabel Wilkerson Caste: The Origins of Our Discontents, pubblicato da Random House nel 2020. L’avremmo letto volentieri e sarebbe stato meno faticoso che vedere il film, nonostante si tratti di un ponderoso saggio politico-antropologico di 496 pagine. Invece DuVernay, convinta militante dei sacrosanti diritti degli afroamericani (è la regista di Selma, 2014), ha voluto fare un film di finzione in cui Wilkerson è interpretata dall’attrice Aunjanue Ellis. E grazie a questo film Venezia 2023 ha sfoderato il proprio “mattone”: Origin propone riflessioni importanti, perché il libro suddetto (che in America ha venduto moltissimo) è sicuramente interessante, ma il film è un continuo susseguirsi di quelli che nel gergo degli sceneggiatori si chiamano “spiegoni”.
E, per inciso, ogni insegnante di sceneggiatura insegna ai suoi allievi, fin dalla prima lezione, come e perché gli “spiegoni” vadano accuratamente evitati.
Origin, in sostanza, si muove su due livelli. Il primo è quello familiare: DuVernay ci racconta anche la vita privata della saggista. La vediamo felicemente sposata con un uomo bianco ebreo, e con una madre anziana; assistiamo al dolore per la morte prima del marito, poi della madre; e alla triste necessità di abbandonare la casa avita mettendo tutto il proprio passato negli scatoloni del trasloco.
Il secondo livello è quello, diciamo così, saggistico: la tesi su cui si basa il libro di Wilkerson è che lo schiavismo praticato nel Sud degli Usa non abbia i propri fondamenti nel razzismo, bensì in un sistema di “caste” che l’autrice rintraccia, con le medesime caratteristiche, nella Germania nazista e nell’India degli “intoccabili”. Assistiamo così alle sue ricerche sul campo, e ad estenuanti discussioni con amici e colleghi (americani, tedeschi, indiani) che la sostengono o la confutano. Ma c’è di più. In questa fase, DuVernay compie anche una scelta registica scriteriata: “visualizza” il passato nazista, raccontandoci in modo assai rozzo una storia d’amore fra un nazista e un’ebrea; e ricostruisce la vita del primo studioso indiano che ha analizzato, da storico, il sistema della caste dal punto di vista degli “intoccabili”. Questi momenti sono ricostruiti e girati in modo imbarazzante, e sommersi da una colonna sonora strappalacrime e roboante.
Alla fine, il problema di Origin è molto semplice: parla di cose importanti, ma è un film di modestissima confezione perché Ava DuVernay non è una brava regista. Anche se prima o poi, per motivi politici, un Oscar finiranno per darglielo.
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