Far uscire la Biennale dalla sua torre d’avorio, spalancandola al pubblico, creando un festival di musica elettronica sperimentale come ce ne sono pochi in giro al mondo, attirando un pubblico molto giovane e molto ricettivo, curioso e privo di pregiudizi. Mostrare che stiamo vivendo un vero e proprio Rinascimento musicale, nonostante il nostro paese ce la metta tutta per rimanere fanalino di coda. Far sold-out con la musica d’avanguardia, per giunta eseguita da due giovani compositrici poco conosciute in Italia. E’ polemica, appassionata ma soddisfatta Lucia Ronchetti, compositrice e direttrice del settore musica della Biennale di Venezia, conclusasi ieri con John Zorn e il suo concerto d’organo “ermetico” e la prima di Nicolas Becker e Robert Aiki Aubrey Lowe.
Un programma denso e coraggioso, con artisti provenienti da tutto il mondo, anteprime assolute come l’opera Ships del Leone d’oro Brian Eno o le prime italiane di Morton Subotnick o della pioniera della musica elettronica Maryanne Amacher. Un dialogo virtuoso tra musica colta (come quella di Francesca Verunelli e Johanna Bailie) e da ballo (come il live degli Autechre), avanguardie sperimentali e nostalgie digitali senza smanie di categorizzazioni, ma la consapevolezza di vivere in un’epoca di grande democratizzazione delle possibilità di far musica.
Un ambito, quello della ricerca elettronica, che la direttrice conosce molto bene. Dopo la formazione in composizione e musica elettronica al Conservatorio Santa Cecilia di Roma e a Parigi, Lucia Ronchetti è passata dalla Columbia University di New York e poi è tornata in Europa dove ha cominciato a collaborare con grandi istituzioni tra Berlino, Parigi, Monaco. Le sue opere sono eseguite in tutto il mondo (le ultime Pinocchios Abenteuer, Chronicles of loneliness).
Paradossale un successo del genere in un paese come il nostro, così “spaventato” dalla musica d’avanguardia.
“In Italia ci sono stati trent’anni di grande decadenza. Prima le cose non stavano così ed eravamo al centro del mondo. Ricordiamoci che Stockhausen fu prodotto da La Scala o che quando morì Luigi Nono molti giornali, ad esempio l’Unità, uscirono con la notizia in prima pagina. Posso dirle il momento preciso in cui è cominciato ad accadere tutto questo: con l’avvento in politica di Berlusconi sono state chiuse tre orchestre e due cori della Rai. C’è stata la precisa decisione di disimpegnare i finanziamenti pubblici dalla cultura. Da lì, via via abbiamo assistito ad una continua decadenza e nessuno ha tentato di riportare le cose come erano prima. La musica non produce denaro immediato e i soldi spesso vanno spesi al buio, attendendo i grandi esiti. E invece da noi i musicisti lavorano gratis o per poco e la musica diventa sempre più brutta, sempre meno appetibile. Molto pubblico italiano è stato esposto a brutte esecuzioni. Quello che evitiamo nella Biennale Musica. Senza finanziamenti i direttori artistici non hanno la possibilità di viaggiare e scoprire novità, e i politici sono disinteressati o non sono aggiornati rispetto a ciò che sta accadendo”.
Eppure l’esito della Biennale musica sembra smentire questa non-cultura tutta italiana…
“E’ stato un festival incredibilmente internazionale con grande varietà di stili e tendenze; non perfetto perché mediato dalla sensibilità del direttore artistico. Ma è stato comunque molto articolato e sono stati rappresentati molti stili, voci e ricerche diverse. Sia gli artisti che vengono dalla classica contemporanea che dalla scena deejay si sono dimostrati tutti coralmente intenzionati ad un nuovo dialogo col pubblico. Abbiamo avuto un pubblico presente, entusiasta. In alcune serate piuttosto animate, seppur complesse, come con gli Autechre il pubblico era tantissimo. Si percepisce che la Biennale non è più solo un posto serioso con compositori chiusi nella loro torre eburnea. E il pubblico è molto più sensibile e pronto ad andare in una sala a sentire qualcosa che non ha mai sentito”.
Direttrice, lei è molto ottimista.
“Sì, stiamo vivendo un rinascimento musicale, ovunque tranne che in Italia, dove gli insegnanti di conservatorio guadagnano meno delle badanti. Altrove è così, la rivoluzione elettronica è invasiva, tutti hanno queste nuove tecnologie e ciò fa sì che la musica sia una realtà culturale necessaria e in espansione. Per fortuna c’è la Biennale, che è una realtà importantissima”.
Durante la Biennale musica all’anteprima mondiale di Brian Eno, ma anche in eventi più ricercati e complessi, come la performance di Brigitta Munterdorf, abbiamo visto molti giovani. Cosa li ha attirati di più alla Biennale?
“Già dall’anno scorso con tante prime esecuzioni e compositori molto noti in Europa (ma non in Italia) il pubblico si è riavvicinato alla Biennale perché ha cominciato a capire che entrare ad un concerto qui non significa rimanere imprigionati per un’ora. E’ una questione di fiducia. Bisogna avere fiducia nel festival. Sabato ci sono state due artiste sotto i trenta anni: un’australiana e una tedesca e il concerto era sold out. Lo considero il più grande risultato di questa Biennale musica”.
Il tema di quest’anno, la musica digitale, era molto articolato…
“Era un salto nel buio perché l’argomento del suono digitale trattato e amplificato coinvolge un ampio fronte compositivo e l’avanguardia è molto complessa, planetaria direi. Mi sono approcciata a questo universo da outsider, visto che io sono essenzialmente dedita al teatro, all’opera. Dunque due anni fa ho cominciato a studiare e ascoltare più approfonditamente ciò che prima avevo seguito da ascoltatore superficiale. Per questo il mio programma non è esaustivo e non può essere perfetto, anche perché questo tipo di musica si evolve giorno per giorno. Se ne potrebbero fare cento l’anno di festival su questo panorama artistico e sarebbero tutti interessanti e accattivanti. Inoltre, se i grandi compositori sono pochi e tutti facilmente raggiungibili, i compositori di elettronica digitale invece sono una realtà immensa. L’elettronica negli ultimi due decenni grazie all’avanzamento tecnologico e alla diffusione di programmi open source, può essere suonata da tutti. Non a caso abbiamo dato un Leone d’Argento a Miller Puckette che ha ideato dei programmi aperti a tutti per lavorare con i suoni digitali. Questa grande democratizzazione della musica ha dato possibilità a giovani artisti e creativi provenienti dalle zone più remote del pianeta di affermarsi. Questi artisti hanno una formazione alternativa a quella della nostra musica classica ma la medesima complessità ed espressività; pensiamo alla musica classica indiana, cinese, la musica araba. Molti di questi producer, sound artist che vengono da tutto il mondo risentono delle loro culture e le immettono nelle loro opere rendendole incredibilmente variopinte”.
Anche quest’anno avete dato spazio alle nuove leve dell’avanguardia facendoli seguire da un gruppo di tutor prestigiosi?
“Sì, ogni anno alla Biennale facciamo una selezione e scegliamo dieci artisti da tutto il mondo; ebbene quest’anno abbiamo ricevuto 300 applicazioni da ben 61 nazioni diverse (tra cui sette nazioni africane) ed erano almeno 20 nazioni da cui la Biennale aveva mai rivenuto nulla. Un bel traguardo”.
Creare situazioni di mecenatismo è di grande importanza…
“In Italia nei compositori non si crede, non li si considera perché non danno un risultato immediato, economico o espressivo. Ma perché l’arte si affermi e generi anche un ritorno economico è necessario aspettare. Pensiamo a Monteverdi, a Cavalli, a Verdi, Rossini, Puccini: questa musica italiana partecipa attivamente al Pil! Ma non è stato così fin dall’inizio. Bisogna pensare in prospettiva come accadeva prima. Se avessimo pensato al risultato immediato non sarebbero nate cattedrali, piramidi, ovvero le uniche cose che rimangono a testimonianza dell’evoluzione dell’umanità.
Come andrebbe insegnata la musica a scuola per accendere una scintilla di curiosità e di passione nei ragazzi?
“E’ molto facile, c’è stata una riforma che ha creato i licei musicali anni fa per cui alcuni licei classici hanno una sezione musicale con ottimi insegnanti. A scuola siamo forzati dalla prima a comporre qualcosa col nostro linguaggio verbale (quello che nella mia generazione si chiamava il pensierino), poi abbiamo le lezioni di disegno dove non diventiamo Leonardo ma comunque acquisiamo delle tecniche che ci permettono da grande di renderci conto di fronte ad un dipinto di Tiziano quale sia il processo creativo. Tutti possono essere compositori, bisogna trasformare ciò che vediamo in segni musicali. È una questione di allenamento, tutti i bambini dovrebbero essere esposti alla musica come lo sono alla verbalizzazione e alla pittura. Se fosse così avremmo un grande pubblico appassionato. Questo succede in Germania dove l’educazione musicale è molto diffusa, tutti suonano in casa e quando devono festeggiare un evento vanno assieme ad assistere ad un’opera di Wagner anziché ad una partita di calcio. E’ una questione educativa e naturalmente politica. Nè la sinistra né la destra hanno fatto niente e noi compositori siamo abbandonati dalla politica nonostante l’Italia sia stata un faro e abbia artisti valorizzati e sostenuti all’estero”.
All’estero il compositore è decisamente sostenuto, lei stessa fa progetti e residenze da anni tra la Germania, l’Austria, la Francia…
“Il paradosso è che a Roma ci sono le accademie straniere che ospitano i grandi artisti dei loro paesi: pensiamo a Villa Medici e Villa Massimo. Mentre gli italiani all’estero non hanno un posto dove andare e l’unica cosa che possono fare è partecipare e vincere i concorsi internazionali. Ci terrei a dire i nomi di ben tre donne giovani compositrici italiane che hanno vinto il premio di Villa Medici, e che sono potute tornare a lavorare in Italia grazie ad un’istituzione straniera. Questo per dire che ci sono tantissimi compositori eccezionali che vengono stipendiati dai ministeri della cultura stranieri: Clara Iannotta, Francesca Veronelli e Marta Gentilucci”.
A partire da domani su cosa lavorerà?
“Il tema della prossima Biennale è molto più difficile perché è la musica assoluta, senza rimandi a letteratura, aspetti visivi, pittura. Quali sono i compositori che lavorano come faceva Beethoven, ovvero pensando al suono che non abbia bisogno di verbalizzazione? Una bella scommessa”.
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