C’è una cosa che ti colpisce subito di Pietro Scalia. La capacità di cesellare la risposta in un’intervista nei tempi, nelle pause, nelle gestualità giuste. Né troppo lunga, né troppo corta, né troppo veloce, né troppo lenta, come se anche in un dialogo cercasse quella perfezione da cui sembra essere ossessionato sul grande schermo. L’ossessione di trovare il momento e lo spazio giusto per ogni inquadratura, scena, sequenza. E parola.
Il montatore due volte premio Oscar, è al Locarno Film Festival per ritirare il Vision Award TicinoModa, uno dei riconoscimenti alla carriera più ambiti in questa rassegna, che ha il pregio di non dimenticare quei mestieri del cinema spesso sacrificati sull’altare della fama di interpreti e registi. Pietro Scalia, che ha dato forma al cinema di maestri come Ridley Scott, Oliver Stone e Bernardo Bertolucci e che fra poco più di un mese sarà a Venezia con Ferrari di Michael Mann è uno di quelli che ha cambiato la storia della sua arte mescolando arte e artigianato, mettendo insieme quei film di Fellini e altri grandi autori italiani visti da bambino alla RSI (lui è del Canton Argovia, ma è nato a Catania – ndr) e il desiderio, non ancora realizzato, di diventare regista.
Stasera, 3 agosto, pioggia permettendo (ieri l’ottimo L’étoile filante è stato “travolto” da un diluvio in Piazza Grande), ritirerà il premio in quella Svizzera da cui è partito per gli Stati Uniti. Finendo per montare capolavori come JFK e Black Hawk Down, film amati come Good Will Hunting o Spider-Man. Per non dimenticare Piccolo Buddha e Io Ballo da Sola.
C’è chi dice che il montaggio è il battito cardiaco di un film. Altri sostengono che sia la terza stesura della sceneggiatura dopo la scrittura e la regia. Per lei cos’è?
Hanno ragione se lo consideri sotto il profilo del ritmo. Ma a mio parere non ne è solo il battito del cuore, è l’anima del film. Pensaci, è con il montaggio che si scopre l’essenza del racconto, è un’arte unica, non solo un mestiere, un lavoro, un talento specifico. Quando tutte le arti già esistevano – la fotografia, la danza, la musica – il cinema entrava nel novero di queste eccellenze grazie al montaggio, senza quest’ultimo non può esistere la Settima Arte. Il montaggio dà la vita a una storia, le dà un senso. Senza, il cinema è solo qualcosa di meccanico. Invece un’opera cinematografica è qualcosa di vivente, lo diventa almeno quando è condivisa con lo spettatore, ne è l’anima appunto. Lo capisci quando chi guarda si riconosce nei personaggi, nella storia, prova delle emozioni. E anche se il montaggio fatto bene è quello che non si vede, come l’anima – di nuovo – e quindi non ha la stessa sorte di fotografia e costumi che sono evidenti e acclamati, ha un’indispensabilità e un’urgenza in sé da cui non puoi prescindere.
Quando ha capito di voler fare il montatore?
La prima volta in cui ho fatto il primo taglio, ero a New York. Avevo girato un film in 16 mm su una giovane violinista che va a esercitarsi in un luogo preciso, e per fare economia e perché mi piaceva avere il controllo di tutto, h0 deciso anche di montarlo. C’era ancora la pellicola, la moviola per rivedere il tutto. Quando mi sono trovato a fare una scelta fra un’inquadratura e l’altra, quando ho capito quando e dove tagliare, il punto giusto in cui staccare, ho sentito qualcosa dentro di me, come se avessi fatto un salto. Fu una sensazione molto potente, vedere delle immagini prendere forma e significato grazie a me. Sentii un’esplosione di creatività, dentro di me, una sensazione fisica di bellezza.
Ridley Scott, Oliver Stone, Bernardo Bertolucci. Ha lavorato con tanti, ma è spesso identificato con loro. Cosa le hanno dato e cosa ha dato lei a loro?
Beh, forse a me hanno dato competenza e libertà, oltre che la consapevolezza di poter fare bene questo lavoro. Anche con autori dai linguaggi profondamente diversi. Oliver Stone è più muscolare, Ridley Scott più epico, Bertolucci più poetico. I maggiori insegnamenti, perché ero giovane, inesperto e a digiuno di certe logiche, li ho avuti probabilmente alla scuola di Oliver Stone, venivo da documentari, dai film di finzione di critica sociale, che in fondo rappresentavano le radici di opere come Salvador e Platoon. Ecco perché devo essere stato preso come assistente in Wall Street e da lì ho salito vari scalini fino a The Doors.Lui di sicuro mi ha messo alla prova, mi ha dimostrato che potevo lavorare a ritmi frenetici, rimanendo a livelli di eccellenza. Misurarsi con la fotografia di Robert Richardson, con attori così bravi come quelli dei suoi cast, con la sua regia che aveva diverse velocità di pensiero e di visione, è stata una sfida pazzesca. Lavoravamo anche 70-80 ore a settimana. Poi arrivò Bernardo che in un’estate romana mi offrì il Piccolo Buddha: ero emozionato dall’idea di tornare in Italia, con un maestro come lui poi. E scoprire che ero appena passato dall’inferno al paradiso, dalla velocità supersonica alla tranquillità, a un lavoro senza stress è stato quasi spiazzante. Niente più battaglie con gli studios, nessuna mole di lavoro enorme e difficile da districare. E in più un autore che si fidava di me: ricordo questa saletta di montaggio in Nepal: lui, Vittorio Storaro e vari altri giganti accanto a me e io, intimidito e giovanissimo che gli chiedo cosa devo fare. E lui “sei tu a dover scegliere, a dover scoprire il disegno”. Un uomo generoso, Bernardo, che mi aveva scelto dopo aver visto JFK – Un caso ancora aperti (che gli valse il suo primo premio Oscar per il montaggio, il secondo arriverà per Black Hawk Down, 10 anni dopo, nel 2002 – ndr).
Con Ridley c’è stata da subito grande fiducia, io ho sempre amato i suoi film, anche se ero sempre un po’ disturbato da un’estetica troppo nitida, pulita, precisa. Con lui ho imparato a confrontarmi, a dare forza al mio lavoro e alle opinioni, che ora molti registi apprezzano. Sempre però, fidandoci ciecamente l’uno dell’altro. Lui ed io abbiamo messo su Il gladiatore, Hannibal e Black Hawk Down in 2 anni. Ci puoi riuscire solo se non ci sono ombre nel rapporto, lui girava, io montavo mentre lui cominciava a girare il successivo. Un lavoro massacrante, con lui ti ritrovi anche 200 ore di girato da guardare e selezionare!
Lei arriva solo dopo il set, o vuole leggere anche la sceneggiatura?
Leggo la sceneggiatura ovviamente, però poi vedo comunque tutto il materiale, non c’è nessun altro che lo fa, nemmeno il regista lo vede tutto, devo vederlo tutto io, quando vi stupite che il montaggio dura anche un anno, pensate che anche se una troupe è formata da 300 o 400 unità, alla fine il montaggio è un imbuto, non si può delegare. Per questo tra regista e montatore ci vuole intimità, un rapporto di fiducia raro: di fatto l’autore si abbandona a chi monta.
Tu ti rendi conto di aver fatto un buon lavoro solo in sala: se lo spettatore si emoziona, riesce a vivere e capire i diversi piani di lettura dell’opera, allora è anche un po’ merito tuo.
Quando ha montato JFK aveva intuito che avrebbe fatto la Storia con la s maiuscola?
Non lo sapevo, perché durante la lavorazione avevamo di fronte una sceneggiatura molto densa, parliamo di circa 170 pagine, tanto che il primo montato era di quattro ore. A lui piaceva, aveva il final cut e voleva presentarlo così, magari in due capitoli. Lo studio, pur non avendo potere contrattuale – e Oliver lo sapeva, continuava a dire “faccio quello che cazzo mi pare” – era scettico e onestamente anche io. E a lui lo dicevo, non poteva pretendere che tra auto, parcheggio e cibo uno spettatore dedicasse a lui una giornata intera. Lui voleva diventare un novello David Lean, fare il suo Lawrence d’Arabia, ma quando capii come fare, quando trovai la chiave, riuscimmo a togliere 45 minuti in una volta sola e a lui piacque. Mettemmo il tutto su vari livelli, a una velocità che molti pensarono lo spettatore non avrebbe accettato, ma la realtà era che chi guardava il film riconosceva ogni momento, personaggio, entrava nel flusso del racconto con noi. Il cinema è questo, la magia con cui l’immagine e la parola creano qualcosa di migliore, più alto di quanto lo siano entrambe singolarmente.
Il suo ultimo film è stato con un altro maestro come Michael Mann, uno che dà al montaggio un enorme importanza. Con Ferrari, che tra l’altro le consentirà di venire a Venezia.
Se mi invitano! Michael lo conosco da anni e più o meno da quando ci conosciamo lui aveva questo progetto che voleva fare con tutto se stesso. Mi ha confessato che la prima volta ci ha pensato trent’anni fa. E periodicamente mi chiamava, mi diceva che aveva trovato il modo di farlo e spesso poi non se ne faceva nulla, perché la sua compagine produttiva non si formava secondo i suoi desideri e perché io quasi sempre stavo lavorando con Ridley. Ma ho sempre amato il suo cinema, da Heat a Collateral fino a L’ultimo dei Mohicani e le chiacchierate con Dante Spinotti, il suo direttore della fotografia, aumentavano di volta in volta la mia stima per lui. Poi, due anni fa mi chiama e mi dice solo “è fatta”. E io ero libero, potevo! Avevo una gran voglia di lavorare con un autore, un filmmaker, non solo su commissione degli studios. Mi ha mandato la sceneggiatura, era bellissima. Ha il controllo di tutto, è impressionante: non è stato facile entrare nel suo metodo di lavoro, nonostante sullo schermo la storia risulti abbastanza semplice e lineare, ha in realtà un livello di complessità notevole, non si ha idea dei tanti livelli in cui Ferrari è strutturato, girato, pensato, scritto. E lui tiene le redini di tutto, ha competenza su ogni aspetto artistico e creativo del film.
Nonostante questo ha lasciato tanto spazio anche ai miei punti di vista, per domare i vari periodi di tempo che ha costruito: lo abbiamo fatto esplorando diversi tipi di montati, con una razionalità che ha cozzato con il mio metodo che invece è più spesso basato sull’istinto, siamo davvero riusciti a trovare una sintesi lui ed io. E credo che il film sia profondamente riuscito e spero che lo spettatore se ne accorga.
Nel suo orizzonte c’è il cinema italiano? Lei con Gabriele Muccino potrebbe fare grandi cose.
Ho conosciuto Muccino, sì, è stato bello, perché lui è venuto per un periodo a Los Angeles quando ha fatto i film con Will Smith, ha avuto un grande successo con La ricerca della felicità e ha lavorato anche lui con Russell Crowe, un mio grande amico. Ma non c’è mai stata l’opportunità di lavorare insieme, anche se sarei felice di tornare a lavorare con autori italiani: lui, Garrone e Sorrentino sono straordinari. Ma anche i loro montatori, quindi non riuscirai a farmi portare discordia tra loro!
Cosa prova di fronte allo sciopero degli sceneggiatori e degli attori?
Trovo che ci troviamo veramente di fronte a una crisi un esistenziale del cinema, che è profondamente cambiato, un processo iniziato da tanti anni, grazie alle nuove tecnologie. Questa è una lotta di potere, si stabilirà da che parte pende la bilancia in questa battaglia, non è solo un fatto di paghe, diritti e intelligenza artificiale.
Le fa paura l’AI?
No, credo che nel mio lavoro ci siano talmente tante parti che sono affidate all’animo umano, a una sensibilità che non può essere riprodotta meccanicamente, che non mi angoscerò finché non sapranno clonarmi.
Sembra però che qualcosa non la convinca.
Sono un po’ confuso sul fatto che il sindacato abbia dato queste waivers, ovvero il permesso ai film indipendenti di portare avanti delle produzioni, secondo me quello è contro l’idea dello sciopero, è l’unico potere, l’unica arma che hai quella di fare una serrata. Ora, se permetti una via d’uscita, tutti presto sapranno come percorrerla. Cosa succederà nell’industria così, a partire dai festival?
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