Hilde, così normale. Timida, riservata, con gli occhialini. Ama suo marito, moltissimo. Fanno il bagno al lago insieme agli amici. Vanno in motocicletta, mangiano il gelato, fanno l’amore. A poco più di 500 chilometri di distanza anche Rudolf fa il bagno, però al fiume. Insieme a sua moglie e ai figli. Sembra la normale vita di una famiglia tedesca. I colori sono simili, un po’ lividi, gli anni sono gli stessi – gli anni quaranta – anche la guerra che infuria sullo sfondo, e che non si vede mai, è la stessa. Quasi si parlano, questi personaggi – realmente esistiti – anche se appartengono a due film diversi. A separarli c’è solo una cosa: la posizione dalla quale osservano l’aberrazione, l’orrore del nazismo, l’infamia.
Da una parte Hilde Coppi, una giovane donna che insieme ad un piccolo gruppo di amici tentò qualcosa di immenso dentro la Germania nazista – dentro l’omologazione della Germania nazista – ossia la resistenza. Dall’altra Rudolf Höss, il comandante di Auschwitz, il lager-simbolo dell’abisso dell’Olocausto, un ometto dall’apparenza mite, ossessionato dall’organizzare con efficienza la macchina di morte del campo di concentramento, inventando, in sostanza, l’industrializzazione dello sterminio.
Le due pellicole sono In Liebe, eure Hilde (From Hilde With Love), del regista tedesco Andreas Dresen, e lo straordinario Zona d’interesse di Jonathan Glazer, appena uscito nelle sale e candidato agli Oscar come miglior film straniero. Hilde è passato in concorso alla Berlinale, ed è uno dei film di cui al festival si parla di più: sarà un caso, ma alla proiezione della Haus der Berliner Festspiele c’erano due file lunghe qualche centinaio di metri.
A ragione. Storia vera: Hilde Coppi e i suoi amici formarono – con immenso coraggio considerando, diciamo così, l’ambiente circostante, ossia la Berlino del Terzo Reich – un minuscolo gruppo di resistenza, noto come Rote Kapelle (“l’orchestra rossa”), chiamata così dai nazisti perché, oltre ad attaccare ai muri di Berlino qualche manifestino pacifista, tentavano di inviare segnali radio verso l’Urss. Una sola trasmissione arrivò a destinazione e diceva, più o meno: “Un saluto a tutti gli amici”. Per così poco, quasi niente, furono tutti arrestati e condannati a morte. Ghigliottinati.
Dresen – un habitué della Berlinale – decide di raccontare la storia dal punto di vista di Hilde (probabilmente qualche anno fa sarebbe stata narrata da quella degli uomini di questa piccola cellula, ma questa è un’altra storia): il presente del film è la sua permanenza in carcere, mentre è raccontato con i flashback l’incontro tra Hilde e Hans, i ritrovi del gruppo di amici al lago e poi tutti intorno al trasmettitore dopo essersi studiati alla buona l’alfabeto morse, le piccole missioni in cui lasciano volantini sull’autobus oppure li attaccano ai muri nei sottopassi della ferrovia.
La detenzione è narrata con colori lividi, gli scorci di passato prossimo sono in un morbido pastello: in effetti è dietro le sbarre che Hilde mostra il suo coraggio, la sua forza di resistenza, la sua umanità di fronte alle guardie, alle privazioni, agli interrogatori e al gelo dei dottori.
Sì, perché aspetta un figlio da Hans ed è lì, in prigione, che partorisce: la scena, quasi da documentario scientifico, è forse una delle più forti del film. Merito, innanzitutto, di Liv Lisa Fries, che conosciamo anche in Italia in quanto protagonista della serie Babylon Berlin (bisognerà fare un ragionamento, prima o poi, della nuova consapevolezza che la Germania sta raggiungendo nel raccontare se stessa): anche la sua, come quella di Anja Plaschg in The Devil’s Bath, è una prova monumentale, che l’ha portata ai limiti estremi della fisicità.
Ma From Hilde, With Love “parla” a Zona d’interesse anche da un altro punto di vista, ovvero per quello che in ambedue i film non si vede. Come nel capolavoro di Glazer si intuiscono solo gli orrori che avvengono all’interno del campo, si sente solo il loro rumore, ogni tanto a distanza qualche sparo o un grido e soprattutto il rombo ininterrotto della ciminiera, così nel film di Dresen praticamente non si vedono mai i nazisti: non si vede una parata, non c’è il solito armamentario di svastiche né di teschi sulle uniformi delle SS, non ci sono le retate della Gestapo o gli strepiti del Führer dalla radio. Anzi, gli agenti che l’arrestano sembrano quasi normali, non portano l’uniforme, per scivolare poi nell’aberrazione con grande naturalezza.
Il nazismo tutt’intorno a Hilde, a Hans e ai loro amici si sente, è palpabile, è l’aria che respirano. Proprio in questo il film trova la sua potenza: perché mostra quanto pervasivo e totalizzante fosse il regime, perché la vicenda di Hilde rivela come una minima incrinatura nella vita quotidiana (le bombe su Berlino sono ancora di là da venire) viene schiacciata e ripagata con la morte.
Anche il tono a tratti ultra-realistico, quasi documentaristico, fa dialogare il film di Dresen con quello di Glazer: l’indugiare sui dettagli – qui sui corpi dei due amanti, Hilde e Hans – sulla freddezza dei luoghi, la cella, il cortile, i bagni – sugli oggetti, sui vestiti, e poi la cura estrema delle parole, del linguaggio, i primi piani, gli sguardi, la sensibilità del pastore che le legge una poesia che il marito le ha scritto prima di essere giustiziato.
Il finale, nella sua oggettività, è struggente: Hilde e le sue compagne sono in fila nel cortile aspettando l’esecuzione, lei di tutte è la più calma, e quand’è il suo turno con rapidità estrema vengono pronunciate le formule di rito, Hilde quasi viene lanciata sul tavolo sul quale è posta una ghigliottina, la lama cade subito. Poco prima, al processo in cui viene confermata una condanna già scritta, alla domanda “perché ha sostenuto le attività illegali di suo marito e non lo ha denunciato?”, la risposta nella sua semplicità è un manifesto antinazista: “Perché lo amo”.
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