Scena uno: una donna, probabilmente una contadina, getta un neonato da una cascata. Scena due: la stessa donna, dopo essersi confessata, viene decapitata, e le vengono tagliate le dita delle mani e dei piedi. Scena tre: ad una festa nuziale di campagna degli uomini bendati prendono a bastonate un gallo, per gioco, fino ad ammazzarlo. Alle prime sequenze di The Devil’s Bath (Des Teufels Bad) dei registi austriaci Veronika Franz e Severin Fiala molti spettatori della Berlinale si coprivano gli occhi, tutto sommato comprensibilmente. E tuttavia merita farsi avvolgere nelle volute di questo racconto che ci trascina in un bosco oscuro dell’Alta Austria nell’anno 1750, narrazione livida e potente della storia di Agnes, giovane donna trascinata dalla violenza della sua vita e da una religiosità cupa e spietata verso l’abisso della mente. E, soprattutto, verso un crimine orrendo, che per lei, però, rappresenta un’assoluzione.
Fermi tutti. Cosa c’entra una cantautrice austriaca che si ispira a Bjork, Aphex Twins e Cat Power e fluttua tra la musica elettronica e Rachmaninov, con una contadina che viveva intorno alla metà del diciottesimo secolo la cui vita in terra è un inferno tanto da sprofondare in una follia mortale (per lei e per altri)? Sì, perché l’architrave di The Devil’s Bath – in concorso al festival berlinese – è l’interpretazione di Anja Plaschg, attrice austriaca al suo primo film, fino ad oggi conosciuta esclusivamente come musicista, nei panni di Agnes: una prova monumentale, estrema anche dal punto di vista fisico, ma soprattutto di totale identificazione con l’anima di questa ragazza di immensa fede – una fede ruvida, superstiziosa, nel cui sostrato profondo scorre una violenza spietata – il cui matrimonio con il pescatore di fiume Wolf rappresenta l’inizio di un viaggio nella perdizione.
Precisazione necessaria: Des Teufel’s Bad – che ci racconta uno squarcio di vita contadina dell’Alta Austria la cui realtà è ignota alla maggior parte delle persone – è una storia vera, nel senso che Franz e Fiala hanno ricostruito la storia di Agnes sulla base delle dettagliatissime carte del processo a carico della donna. “Tanto che nella prima versione della sceneggiatura il film era costruito come un courtroom drama”, racconta a THR Roma Veronika Franz. “Il racconto offerto da queste carte rappresentava un’occasione straordinaria: nessuno si è mai interessato di queste persone, di questa realtà contadina così ai margini. E invece questi resoconti ricostruiscono in maniera molto dettagliata le vite delle persone coinvolte nel caso. Non è la storia dei re e delle regine, ma quella di persone comuni”.
In altre parole: negli stessi anni dell’illuminismo, poco prima che ad un tiro di schioppo nascesse Mozart, la quotidianità dei contadini era fatta di povertà, lavoro duro e aspro, gerarchie inviolabili e una religiosità popolare in cui il diavolo e l’inferno erano considerate verità incontestabili e dunque terrorizzanti. Agnes prega incessantemente, ma è un po’ svagata, colleziona farfalle morte e desidera tanto avere un figlio da Wolf, appena sposato… peccato che lui non abbia alcun interesse nella sessualità. Tutt’intorno questo bosco oscuro e feroce, così come un’inquietante mattanza è la pesca delle carpe nel fiume melmoso che è il posto di lavoro di Wolf. Passo dopo passo, Agnes scivola verso la depressione e dalla depressione nella follia, e le uniche cure concepibili in quel luogo e a quei tempi per le sofferenze dell’anima sono dolorose e angoscianti, come l’inserimento di pelo animale sotto la pelle.
Il punto di svolta avviene quando uno dei contadini del villaggio si toglie la vita e il parroco dichiara che è un peccato peggiore dell’omicidio, che il suo crimine contro Dio è più grave di quello della donna che aveva lanciato un neonato giù per la cascata: quest’ultima si era confessata, il suicida no, dunque la sua dannazione è garantita. E’ da lì che Agnes partorisce il piano che lei vede come unica via di fuga: non potendosi uccidere, ucciderà un bambino, “che non potrà mai peccare, sarà un angelo dinnanzi a Dio”. Sarà condannata a morte dagli uomini, Agnes, ma con la confessione presso l’Altissimo avrà la salvezza eterna.
Fenomeno storicamente accertato: in quegli anni si sono registrati centinaia di casi di persone, soprattutto donne, che non potendo terminare la propria vita per mano propria, compirono omicidi, soprattutto bambini, per, paradossalmente, salvarsi. A tanto arrivava la paura di Dio.
In tutto questo va detto che Anja Plaschg (che da cantautrice si fa chiamare Soap & Skin) è il film: il suo volto, la sua sofferente fisicità, la sua passività e poi la rivolta (arriva ad ingerire veleno per ratti), dominano il racconto e lo schermo con una forza incredibile. “Per noi il suo coinvolgimento nel progetto è stata una benedizione”, raccontano Franz & Fiala. “All’inizio l’avevamo chiamata solo per comporre la colonna sonora, ma quando ha letto la sceneggiatura ci ha chiesto di essere coinvolta molto di più: le facemmo un provino, fu straordinaria. Poche attrici professioniste sarebbero state capaci di fare quel che ha fatto lei. In più è stata estremamente disciplinata, molte delle sue idee e improvvisazioni hanno avuto un ruolo importante nel film, come per esempio il rapporto viscerale di Agnes con le farfalle”.
I due registi – che hanno alle spalle un cult come Goodnight Mummy, un horror che nel 2014 fu mostrato in anteprima alla Mostra di Venezia, festival del quale Veronika Franz qualche anno dopo è stata anche giurata – spiegano The Devil’s Bath, per quanto contenga elementi di terrore non è certo un horror: “Non lo è nel ritmo, non lo è nella dinamica della scrittura. E’ vero che la depressione è un orrore e chi ne soffre ha l’inferno dentro, ma non corrisponde alla struttura dell’horror”.
E benché il film sia costruito su una ricostruzione storica meticolosissima, a tratti documentaria (è stato girato interamente in location, cioè nei boschi dell’Alta Austria), The Devil’s Bath ha evidentemente anche un aspetto contemporaneo: “Agnes non riesce ad adattarsi all’ambiente circostante, e pure oggi, se non ti adatti sei un outsider”, spiega Fiala. Ecco che la macchina da presa segue lo sguardo e i movimenti di Anja/Agnes, fotografa le solitudini dei personaggi in questo ambiente, si allarga negli anfratti di questa natura livida dove l’unica speranza è un Dio onnipresente ma al tempo stesso lontanissimo e crudele.
Alla fine, compiuto l’orrendo delitto, Agnes corre a confessare, con parole confuse ed emozionate: e quando arriva la formula “Ego te absolvo” la donna esplode in un pianto liberatorio che è anche risata, felicità parossistica. “Non avevamo dato nessuna indicazione ad Anja, ha fatto la scena una volta sola”. Condotta dal boia, lei è calmissima, serena. Le mettono il cappuccio e lei canta, con lei canta anche una bambina bionda: finché d’improvviso un’immensa spada le mozza la testa. Gli abitanti del villaggio si precipitano a raccogliere con delle piccole coppe il sangue che sgorga a fiumi per berlo, uno suona la ghironda. Tutti cantano e ballano.
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