Saltburn è un film pazzo pazzissimo. È un oggetto strano, che non ti aspetti dopo un esordio come Promising Young Woman. E che ti dice quindi che anche Emerald Fennell è una regista pazza pazzissima, il cui Oscar alla sceneggiatura non ha significato solidificare le proprie radici, ma sradicarle per trovare nuovi modi di vedere e raccontare. Modi pazzi. Pazzissimi.
Prima di tutto Saltburn è un’opera a parte. Non c’entra assolutamente nulla con la precedente. Né nei colori, né nelle inquadrature che incorniciano i protagonisti, come i vecchi quadri alle pareti della residenza regale che dà titolo al film. La storia è ambientata nel 2006. Dunque Emerald Fennell fa un film come se fosse il 2006. I vestiti sono quelli, gli scolli a V e i boxer fuori dai jeans anche, i personaggi guardano in tv Superband e The Killers suonano dalle casse di una macchina il successo Mr. Brightside, il cui videoclip un po’ richiama la magniloquenza e la sciatteria dell’aristocrazia evocata nella pellicola (seppur il riferimento al video della canzone era la relazione d’amore di Moulin Rouge).
Anche la scrittura è molto 2006. Riecheggiano i drammoni accorati pieni di intrighi e di inganni, di confessioni indicibili e relazioni intricate. Maledette, come l’anima bella e dannata dei protagonisti. Esattamente la stessa che hanno Jacob Elordi, Barry Keoghan, Alison Oliver, Archie Madekwe. Per l’appunto, belli e dannati. Anzi, bellissimi e dannatissimi. È poi nelle dinamiche narrative, ancora una volta di potere, che Fennell si insinua sibillinamente. Che imiti il suo protagonista Oliver? Sempre acquattato negli angoli delle stanze, fuoriesce spesso da punti ciechi dove è il buio a dominare e da cui è solito entrare in scena.
Così Oliver (Keoghan), borsa di studi e brutti vestiti, diventa amico di Felix (Elordi), famiglia nobile e tutta la corte ai suoi piedi. Tra tutti gli ammiratori e gli spasimanti, Felix sceglie proprio Oliver da ospitare a Saltburn. Come l’anno prima aveva scelto un altro amico. E, così, come l’anno precedente ancora. Perché se Felix li può scegliere significa che loro non sono altro che dei giocattoli e Oliver è il nuovo arrivato. Anche se il ragazzo ha deciso di restare.
Lo sporco, i riflessi e i castelli di Saltburn
A Promising Young Woman stava a cuore mostrare lo sbilanciamento di una società patriarcale che schiaccia e sottomette il genere femminile, deciso a ribellarsi. A Saltburn ciò che interessa è mettere a nudo la patina malata e spesso volgare di un’upper class alticcia e improbabile, che proprio per il suo essere così assurda dà l’impressione di venire dal reale. Gli squilibri di classe, il povero che guarda al ricco. Il ricco che (bugiardamente) si sente quasi in colpa di tutti i suoi averi, allora li vuole condividere, spenderli e distribuirli al povero, che a sua volta li accetta (sempre bugiardamente) con gratitudine. Ma se è davvero difficile andare avanti nella miseria, è altrettanto facile abituarsi all’abbondanza. Ed è tremendamente, tremendamente penoso doverla lasciare.
Il sesso e la morte danzano insieme sulle tombe di un’aristocrazia dove conta solo la superficie, le buone maniere. Organizzare grandi feste di compleanno e vestire con abito scuro a cena. Se i demoni devono agire, quello è l’ambiente ideale, prolifero per perversioni, ossessioni, disfunzioni e desideri carnali e letali. Saltburn ne ha tanti, esagerati. Come i simbolismi con cui Fennell è andata sul facile (specchi, labirinti), ma da cui è impossibile non farsi colpire e suggestionare, soprattutto la prima volta che Oliver vede, guarda, osserva Felix da una finestra. Lontano, frammentato in tre e rifratto dalla luce. Oliver è scisso. Misterioso e disgiunto. È un essere inquieto e inquietante.
Un Barry Keoghan talmente eccezionale – lui in generale, molto anche nel film – che nella sua trasformazione da sfigato a “un po’ meno sfigato perché amico del ricco” non cambia solo pettinatura e abiti, ma i connotati. È la faccia che gli si stravolge. Non è assolutamente la stessa. In fondo il co-protagonista Felix/Jacob Elordi glielo dice: “Non so cosa sei”.
Ma lo sappiamo noi. Sappiamo che cos’è Saltburn. È ciò di cui il pubblico ha bisogno. Di carne, liquidi, dualità, impulsi da sfogare. Di film che ti stordiscono, che devi rimanere a guardare fisso fino alla fine per far tornare ogni cosa al suo posto, anche nella grande gabbia delle costruzioni sociali. Oppure no. Ha bisogno di un cinema pazzo pazzissimo, con i castelli sospesi simili a L’anno scorso a Marienbad. E di finali allucinanti (e ancora una volta musicalmente elettrizzanti) come quelli che Emerald Fennell sa creare.
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