Sono passati quasi dieci anni dall’esordio al lungometraggio di Thomas Cailley che, nel 2014, è stato accolto come una delle nuove promesse del cinema francese grazie a The Fighters, premio César per la miglior opera prima. Il regista, classe 1980, torna con un nuovo film, The Animal Kingdom – presentato a Cannes 2023 e ora nella sezione Crazies del Torino Film Festival – che ne conferma il talento.
Ambientato in un mondo affetto da misteriose mutazioni che trasformano alcuni esseri umani in animali, il film vede protagonista Roman Durin nei panni di François, un uomo che tenta di ritrovare sua moglie – scomparsa dopo aver manifestato i sintomi della mutazione – con l’aiuto del figlio sedicenne, Emile (Paul Kircher). Un’impresa che cambierà per sempre le vite di entrambi.
Un film su una mutazione ambientato nel presente ma che non sviluppa come se fosse un titolo post-apocalittico. Perché?
Queste due scelte mi hanno accompagnato per mesi e mesi durante la fase di scrittura. Desideravo che il film fosse ambientato ai giorni nostri. Volevo filmare la Francia contemporanea. Inoltre ho girato nella regione in cui sono cresciuto. Volevo ci fosse un rapporto molto diretto con l’attualità. Volevo prossimità alla storia e ai personaggi. E per me questo film è tutto l’inverso di una distopia. Ho l’impressione di essere cresciuto e di vivere in un mondo che diventa sempre più povero, in particolare in termini ambientali, di biodiversità. E mi dicevo: “Piuttosto che proporre un altro film post-apocalittico, non possiamo provare a trovare una storia in cui l’anomalia è che c’è più diversità, c’è più ricchezza?”. Per me il film è utopico. E anche ottimista. Propone un futuro più ricco del passato.
Uno dei temi fondanti di The Animal Kingdom è quello della convivenza. Lo ha realizzato in momento storico cruciale, tra il cambiamento climatico e la distanza sempre più marcata tra gli esseri umani.
Il film tratta anche il tema della coesistenza tra ciò che è normale e ciò che non lo sembra. È molto interessante parlarne in un mondo che soffre per la crisi climatica, in cui tutto sta cambiando e in cui il nostro rapporto con la natura è disturbato dal nostro modo di vivere. La mutazione dei personaggi rafforza la questione della differenza e dello sguardo che abbiamo come individui e società sull’altro. Siamo gli unici esseri viventi che hanno tracciato una linea invisibile tra noi e tutto il resto. Dicendo, inoltre, che tutto il resto è meno importante, ci appartiene e possiamo sfruttarlo o distruggerlo quanto vogliamo. Nel film questa frontiera viene abbattuta, non è più così netta e si finisce per appartenere a un mondo più ampio. La coabitazione è all’interno di se stessi.
Il suo film è anche una metafora di come trattiamo i migranti che rinchiudiamo in dei centri per tenerli lontani dai nostri occhi?
Ovviamente abbiamo pensato alla crisi migratoria. Ma non solo. Ci sono molti modi in cui la società tratta le differenze. Quest’estate ho presentato il film in Francia e ne ho discusso con il pubblico. In molti mi hanno parlato della crisi migratoria, ma anche di come trattiamo le malattie psichiche, la transizioni di genere, il razzismo. E penso che questo sia indice dell’importanza che hanno le metafore fantasy. Si può ampliare lo spettro dell’interpretazione e parlare di molte cose contemporaneamente.
È impossibile, guardando il suo film, non pensare anche a quello che abbiamo vissuto in questi anni con il Covid. Voleva sottolineare con ironia che ci adattiamo a tutto?
Adattarsi senza cambiare nulla, sì. Se prendiamo l’esempio della pandemia, c’è stato un certo numero di segnali che abbiamo ricevuto come società. Ma non abbiamo cambiato nulla. Non ne siamo capaci. Solleviamo il tappeto e ci nascondiamo sotto la polvere. E quindi, più che adattarsi, ci abituiamo a tutto.
Se potesse scegliere di trasformarsi in un animale, quale sarebbe?
Ho visto recentemente un bellissimo documentario sulle balene. Quindi, in questo momento, direi una balena (ride, ndr).
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