“Mi scusi se l’ho fatta venire fin qui ma tra una riunione e l’altra avrei dovuto correre per tornare in centro”. Incontriamo Tizza Covi nella hall di un albergo torinese, a due passi dalla stazione di Porta Nuova. La regista è in città non per presentare un suo film ma in veste di giurata della sezione documentari internazionali del Torino Film Festival insieme a Carlo Hintermann e Jessica Woodworth. “Adoro questo lavoro e lo accetto sempre molto volentieri perché permette di vedere film fatti con linguaggi, temi ed estetiche diverse” confida a THR Roma. “Spero che non vincerà il compromesso ma un’opera per la quale uno di noi ‘bruci’”.
Subito dopo l’esperienza torinese, insieme a Reiner Frimmel e Vera Gemma, volerà in direzione Los Angeles per accompagnare le proiezioni di Vera, docudrama presentato nella sezione Orizzonti di Venezia 79 – dove ha vinto come miglior regia e miglior attrice – scelto dall’Austria per gli Oscar 2024 come miglior film internazionale. Mentre all’orizzonte c’è già un nuovo progetto. “È la storia di un anziano musicista che ha sempre fatto musica blues. La domanda che ci poniamo è: ‘Quanto un artista deve fare compromessi per arrivare a essere famoso?’”.
Giurata al Torino Film Festival dei documentari internazionali. Come sta andando?
Adoro questo lavoro e lo accetto sempre molto volentieri perché permette di vedere film fatti con linguaggi, temi ed estetiche diverse. Il documentario poi è sinonimo di un genere molto ampio. È bellissimo vedere quello che fanno i colleghi. Ma è anche un lavoro intenso perché la ricezione di un film rimane soggettiva. Ci sono dei titoli che ti toccano per un certo motivo e altri che, invece, non riescono a entrarti così tanto dentro. Con gli altri giurati abbiamo delle discussioni che vanno veramente nel profondo delle cose e che permettono di capire ancor meglio il lavoro che si è visto. È stupendo ed è una grande fortuna che non accade sempre.
Liliana Cavani ha dichiarato che quando fece la giurata alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2009 si dovette arrivare al compromesso per scegliere il vincitore. Lei che approccio predilige?
Ho una certa esperienza come giurata ormai, tra Locarno e Karlovy Vary (ride, ndr). Diciamo che per me quella del compromesso è sempre la via sbagliata. Però, qualche volta, non c’è altro modo. Anche se preferisco arrendermi a un film che piace tantissimo agli altri giurati piuttosto che non poter dare voce al mio film o al loro film preferito e premiare un compromesso. Spero non si presenti quest’eventualità qui e di premiare un’opera per la quale almeno qualcuno di noi “bruci”.
Secondo lei qual è il senso di un festival cinematografico? Non solo per gli addetti ai lavori ma anche per il pubblico.
I festival hanno un vantaggio: sono un happening. Sono un magnete anche per i giovani e permettono loro di vedere film arthouse dove sono presenti gli autori stessi che parlano del loro lavoro. È questo il compito dei festival, aprirsi cioè ad un pubblico più grande. Non li ho mai trovati solo delle bolle per gli addetti al lavoro. Come cineasta posso dire che sono l’unico modo per trovare un pubblico per i miei film. È veramente frustrante per i titoli arthouse uscire in sala. I festival salveranno il cinema, hanno un valore indescrivibile.
Le è mai capitato nell’incontro con il pubblico di avere un’epifania sul suo lavoro?
Sì, varie volte. C’è un pubblico molto attento e spesso i film nascono in modo inconsapevole. Anche al montaggio. Ci sono delle occasioni in cui riescono a spiegare una relazione che tu non vedi.
L’Austria ha scelto Vera come candidato al miglior film straniero ai prossimi Oscar.
Era già successo con La Pivellina, ma non siamo riusciti ad arrivare nella rosa finale. Era un tempo diverso. Non andammo a Los Angeles, non avevamo un’agente o una distribuzione. E questo è un po’ il problema degli Oscar. Più potenza c’è dietro di te – penso a una grande distribuzione come Netflix che investe molto in pubblicità e, di conseguenza, in visibilità – più possibilità hai. E quello che conta adesso è proprio trovare una visibilità per il nostro lavoro. Con Vera e Rainer andremo a Los Angeles per una settimana per presentarlo in quattro cinema. È la possibilità finanziaria che abbiamo e ci fa molto molto piacere condividerlo con il pubblico.
Uno dei temi del film è il pregiudizio. Lo stesso che lei e Reiner avete ammesso di avere nei confronti di Vera la prima volta che l’avete incontrata.
Sì, è vero. È una cosa strana. Si vede una donna vestita molto sexy e che ha fatto uso della chirurgia estetica e scatta questo meccanismo per il quale si pensa che sia stupida, che non abbia nulla da dire. Un meccanismo così automatico che è molto difficile da combattere. L’incontro con Vera Gemma è stato il punto di partenza. Ho veramente capito la stupidità dei pregiudizi. Ancora oggi se una donna vuole presentarsi come intellettuale deve vestirsi col maglione nero fino al collo e indossare gli occhiali. È una cosa oscena.
Da La pivellina a Vera passando per Mister Universo. I personaggi dei vostri film sembrano usciti da una fotografia di Diane Arbus. È uno vostro riferimento?
Oddio! Ci ha beccati (ride, ndr). Diane Arbus è un’eroina per noi. Anche del cinema. Perché nella fotografia riesce a raccontare una storia. Siamo stati influenzati tantissimo da lei come artista ma anche dal suo sguardo umano. Non fotografa i suoi soggetti perché poi il pubblico ne possa ridere o giudicarli. C’è sempre uno sguardo tenero che permette anche a chi guarda di avere voglia di scoprili sotto un altro punto di vista. Sia io che Reiner abbiamo studiato fotografia. Quindi credo che l’influenza primaria del nostro lavoro arrivi prima da lì e poi dal cinema.
Con Reiner Frimmel siete anche produttori dei vostri film. L’unico modo per realizzarli con totale libertà?
Il cinema ha un problema. Quando lo fai con tanti soldi e con tante coproduzioni perdi libertà. Il cinema è un’arte e l’arte è un posto dove non ci sono segnali stradali. Non esiste contromano, non ci sono limiti di velocità. È un mondo libero. Quello che vorrei fare nel mio lavoro con Reiner è essere il più libera possibile. E avere anche la possibilità di poter sbagliare o di non poter riuscire. Perché non puoi sempre essere sicura che una tua idea abbia successo. Non è questo il senso dell’arte. Se vai a Cannes poi non devi per forza andare a Venezia o Berlino. Il senso è quello di cercare nuovi linguaggi. E con ogni personaggio che si ha bisogna adeguare il linguaggio cinematografico. È molto rischioso. Ma produrre i nostri lavori con pochi soldi ci dà la libertà di osare. E questa è la cosa più bella nell’arte.
State lavorando su nuovi progetti?
Cominceremo il nostro prossimo lavoro il primo febbraio a Vienna. È la storia di un artista anziano che ha sempre fatto musica blues. La domanda che ci poniamo in questo film è: “Quanto un artista deve fare compromessi per arrivare a essere famoso?”. Sarà un film di finzione molto documentaristico.
Spesso quando si chiede a un regista di parlare del cinema italiano che ama si tendono a fare sempre gli stessi nomi, da Antonioni a Fellini. Ci sono invece altri registi italiani, anche dei nostri giorni, che guarda con ammirazione?
Adoro Vittorio De Seta, il documentarista, che ha fatto dei lavori stupendi. Gli altri miei miti sono Michelangelo Frammartino, Alice Rohrwacher e Pietro Marcello. I tre grandi del cinema italiano attuale.
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