Semplice e ironico, apocalittico e integrato, Tsai Ming-liang non è solo uno dei più grandi cineasti contemporanei e probabilmente l’uomo che dall’Estremo Oriente (è malese naturalizzato taiwanese) ha portato in tutto il mondo più poesia, innovazioni, invenzioni estetiche e narrative di chiunque altro. Maestro della seconda ondata del Nuovo Cinema di Taiwan, è arrivato circa 30 anni fa a sparigliare le carte del cinema mondiale nei controversi anni ’90, che vedevano una profonda crisi delle cinematografie che lui ha più amato (in particolare quella europea del più o meno immediato dopoguerra) e il nascere di un altro modo di esprimersi spostandosi più a Est. Scoperto dal Torino Film Festival che premiò il suo esordio come miglior film (Rebels of the Neon God), consacrato nel decennio a cavallo del 2000, incastonato tra Vive L’amour, Leone d’Oro a Venezia (1994) e il capolavoro Il gusto dell’anguria (2005), Orso d’argento a Berlino, con il rigore di Bresson e un minimalismo ostinato ha saputo raccontare i corpi, i sentimenti, il dolore come pochi altri. E anche per questo, oltre che per la sua capacità di parlare tanti linguaggi (la VR per i suoi lavori nei musei, quello più classico del cinema nei suoi cult in sala), che il Locarno Film Festival lo premierà oggi con il Pardo d’Oro alla carriera targato Ascona-Locarno Turismo.
Da tre anni, da Days, non vediamo suoi film di finzione, ha deciso di dedicarsi solo ad altri formati?
Sto lavorando a un film di finzione, ma non finirà a breve, ci vorranno almeno altri due anni: in questo momento sono più interessato ad altre branche della mia arte, a questa sperimentazione che faccio con i musei in particolare. Inoltre lavoro più lentamente rispetto a quando ero più giovane e va detto che neanche prima io fossi velocissimo e prolifico, ho più o meno girato un film ogni tre o quattro anni. Ora ce ne metterò almeno sei o sette ogni volta. E poi sono un uomo che è entrato da un po’ nei suoi sessantanni e che ha il suo attore feticcio, il protagonista di tutti i propri film, Lee Kang-Sheng ancora nei 50. Ecco, sto aspettando che lui entri nel mio stesso decennio perché capisca tutto ciò che ho capito io!
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A Locarno, la capitale mondiale del cinema d’autore, riceve il premio più importante. È felice?
Ancora più del premio alla carriera, di cui sono molto orgoglioso, sono felice che i miei film vengano visti in un festival così importante e attento alle forme d’arte e espressive più diverse, alternative. Io ho fatto undici film di finzione, che non sono poi così tanti, ma che hanno avuto tutti un impatto su di me e mi auguro sugli spettatori.
È ancora un grande appassionato di cinema europeo? Ha individuato il nuovo Fassbinder, o è tuttora lui uno dei suoi registi preferiti?
Confesso che vedo sempre meno cinema, rispetto al passato. Continuo ad amare i formati e le idee espressive dei registi europei di un tempo, ora però, anche perché molti schermi in cui poter vedere i film si sono rimpiccioliti, vedo, sento una minore attenzione per l’estetica, per la bellezza e la cura dell’immagine. Ovunque, non solo in Europa. Il fatto che siano cambiati i modi di fruizione di quest’arte, sta modificando anche come creiamo le opere. E allora spesso mi rifugio nel vecchio cinema, che quella volontà di essere bello ce l’aveva insita.
Tra questi “pericoli” c’è anche l’Intelligenza Artificiale?
Non mi fa paura perché non la conosco, anzi non la capisco. Al ristorante per ordinare mi chiedono di usare il QR code, ma io mi impunto e mi faccio portare il menù di carta. Per preoccuparsi di come qualcosa potrebbe usare te, dovresti cominciare a usarla almeno tu stesso.
Una delle cose più affascinanti del suo cinema è come racconta e mostra il corpo. Un tema tornato prepotentemente nell’agenda politica di molti governi nel modo peggiore
Ho sempre trovato che le Barbie fossero bellissime, mi sono sempre piaciute, anche quelle sullo schermo, ovvero il prototipo occidentale della femminilità, e ho pensato di desiderare anche di portarle sullo schermo ma ben presto ho capito che rappresentavano una standardizzazione dei corpi che in sé non catturava la mia attenzione. Ho capito molto presto che dei corpi altrui, invece, imprigionati dalla macchina da presa mi interessava il loro cambiamento, le loro imperfezioni, ciò che rappresentavano e raccontavano, attraverso i solchi che li attraversano. Ecco perché amo il primo piano, dare importanza al viso, a ciò che ti dice. Ognuno di noi può essere una Barbie, la perfezione in sé. Sui governi, che dire? Il corpo è un’ossessione per molti e troppo spesso è l’occhio di chi guarda il problema.
In Giappone c’è l’usanza di lavarsi, completamente, nei bagni pubblici e farlo di fronte a tutti. Io volevo far vedere questo sullo schermo e il mio produttore mi pregò di mettere almeno un avviso che recitasse “non adatto a un pubblico di bambini sotto i 12 anni” e io gli ho risposto che non me ne fregava nulla! Non c’è scandalo o malizia in come guardo i corpi, anche se c’è chi mi ha definito addirittura pornografo dopo Il gusto dell’anguria.
Un’altra caratteristica essenziale nel suo cinema è il tempo. Non di rado l’effetto di quest’ultimo sui corpi
Il tempo è uno degli elementi del corpo, come lo è la pelle, la costituzione delle ossa o altro. È ciò che rende bello e unico il corpo, quindi si, amo le Barbie che raccontano il tempo che passa. Mi piace narrare come cambiano i movimenti dell’uomo o della donna, la mimica, l’autenticità e la potenza di come si modifica questo strumento straordinario che abbiamo. E quando l’immagine del film è davvero autentica mostra tutto il suo potere. La maggior parte del tempo e dei tempi sono occupate da momenti minimali, da mimiche quasi impercettibili. Amo le scene lunghe, in un mio lavoro faccio osservare ai protagonisti un quadro per 14 minuti, perché nella composizione dell’immagine erano fondamentali i treni che passavano in tempo reale alle loro spalle. Non bisogna aver paura del tempo, che sia dilatato o brevissimo. Nella vita e nel cinema.
Prima parlava di schermi sempre più piccoli. Con smartphone e social siamo sempre più soli oppure, invece, abbiamo rotto ogni confine e siamo una sola grande comunità?
Siamo più soli, anche se su questi piccoli schermi hai l’impressione di avere molti amici, di abitare una moltitudine, in realtà anneghi nella solitudine. Queste nuove tecnologie ti dominano, ti “bastano” e alla fine con ciò che fai virtualmente finisci solo per dire a tutti coloro che sono lì, su quella piattaforma, che non hai nessuno vicino a te, davvero.
Cosa pensa degli scioperi di Hollywood? Potrebbero essere un’opportunità per le cinematografie di altri paesi?
Non so se lo sciopero potrà essere un’opportunità per le cinematografie d’altri paesi, chi può saperlo? Anche lì torna il tema della tecnologia e il problema vero è che è sempre un passo avanti a noi, soprattutto davanti a me. La vera domanda è “come tutto questo sta modificando la nostra vita, il nostro modo di esprimerci?”. Può facilitarci la vita solo se impariamo a controllarla, a usarla a nostro vantaggio e a far sì che non sia lei a dominarci.
E sulla sopravvivenza della sala cinematografica è pessimista o ottimista?
Ottimista, se cominciamo a ragionare in modo più laterale. Ad esempio, alla luce della mia esperienza nel far interagire esposizioni artistiche e progetti cinematografici, credo che i musei potrebbero diventare le nuove fortezze del cinema. Sono luoghi in cui la diversità, l’alternativa culturale, la creatività altra trovano spazio e comprensione, lì si è abituati a una visione artistica, così come all’importanza dell’immagine, che non sia convenzionale e conforme a ciò che si ritiene “normale”. Le catene dei musei potrebbero divenire un nuovo circuito di sale cinematografiche. In tutto il mondo. Soprattutto per il cinema d’autore. Dobbiamo decidere cosa sarà il cinema nel futuro, come vogliamo che sia, che ruolo avrà nella nostra formazione e nella nostra concezione di bellezza. E dove vorremmo vederlo. Io so solo che sarà ancora e sempre lo strumento più completo e affascinante per raccontare una storia. E allora perché non trovare posti altrettanto suggestivi per mostrarle, queste storie? E, siamo sinceri, troveremmo sicuramente un pubblico decisamente ben disposto ad accettare film più sperimentali e difficili, non avremo spettatori che vogliano solo blockbuster mainstream.
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