A volte i direttori di festival cercano innovazioni cervellotiche, esperimenti eccessivi. Poi vedi Un amor e capisci che spesso la genialità è nelle cose semplici, nel far sì che due film in concorso – o tre, o cinque – risuonino tra loro, si facciano eco. E così Cortellesi, Coixet, Andreas Öhman e Torre e Jalali, ma anche in fondo gli uomini sull’orlo di una crisi di nervi della terza giornata della Festa del Cinema di Roma 2023 di Saba e Nikki, si parlano tutti. Dalle donne spezzate che vogliono ostinatamente ritrovarsi, non importa quale e quanto dolore abbiano dovuto o dovranno sopportare, agli uomini intrappolati in ossessioni che li uccidono a poco a poco. Metterli insieme, mostrarli negli stessi giorni, immaginare un festival come un racconto unitario possono sembrare soluzioni lontane e troppo classiche, ma sono terribilmente efficaci.
Un amor, la trama
Ecco perché Un amor riesce ad entrarti ancora più dentro. Perché Paola Malanga e il suo comitato di selezione hanno fatto in modo di aprire l’animo del pubblico e degli addetti ai lavori ai sentimenti che qui racconta Isabel Coixet. Quando arriva la sensualità innocente di Laia Costa, i suoi occhi neri e profondi, a scrutare il piccolo mondo antico di una provincia in cui si è rifugiata perché il suo lavoro di traduttrice da alcuni dialetti africani nella mediazione culturale l’ha spezzata, tu vuoi accoglierla. L’orrore, ben riassunto in un video che replica documentaristicamente una di queste testimonianze, l’attraversa da troppo tempo e ne ha consumato lacrime e sentimenti: essere la voce di quella sofferenza, l’ha svuotata. E immagina la provincia rurale spagnola come un rifugio. Ci troverà un altro tipo di bruttezza, di aridità, di violazione emotiva persino peggiore. Si scoprirà fragile, un po’ ossessiva, teneramente e inesorabilmente vulnerabile ma anche capace di amare e di sopravvivere. Oltre tutto e tutti.
La recensione del film di Isabel Coixet
I particolari di una casa che cade a pezzi, del sorriso di un vicino che si sente artista e cerca compagnia, dell’espressione tirata di una moglie che tiene in piedi una coppia borghese che viene lì solo per il weekend, la coazione a ripetere quasi pavloviana di un’intera comunità che non riguarda solo ciò che accade, ma persino ogni singolo gesto. Isabel Coixet, con pazienza, ci mette quasi un’ora per costruire l’affresco scarno di una provincia perduta, diroccata, di un pueblo di poche case, troppo lontane per definirsi comunità solidale ma abbastanza vicine per sapere ogni dettaglio della vita altrui. Se Nat si è rifugiata lì per scappare dall’orrore altrui, per non esserne invasa, si ritrova colonizzata dalle attenzioni morbose di maschi inselvatichiti e manipolatori, tossici per mancanza di ossigeno emotivo, da uomini e donne incapaci di tendere una mano all’altro, automi dell’anaffettività, stanchi interpreti in un teatro cadente.
Un padrone di casa arido e violento, un vicino troppo gentile, un muratore-contadino che è temuto da tutti perché, senza che loro l’abbiano mai davvero capito, ha dominato quell’ecosistema fingendosi semplice e divenendo manipolatore (in questo senso è frastornante e bravissima Ingrid Garcìa-Jonsson nel ritrarre quel sistema malato con una sola frase, con un solo sorriso amaro, confermando che piccoli ruoli non esistono se gli attori sono grandi).
Un amor
Cast: Laia Costa, Hovik Keuchkerian, Hugo Silva, Luis Bermejo, Ingrid García-Jonsson, Francesco Carril
Regista: Isabel Coixet
Sceneggiatori: Isabel Coixet, Laura Ferrero, Sara Mesa (la scrittrice del libro da cui è tratto il film)
Durata: 128 minuti
Laia Costa incarna un animo puro e ferito, una donna spezzata, che porta la sua malinconia borghese in un territorio in cui ormai non cresce più nulla, a partire dalle emozioni vere. Tutto è un baratto e le glielo fa capire proprio “il tedesco” che le proporrà con finta ingenuità lo scambio più inaccettabile che lei poi rivestirà d’amore, solo perché ne ha bisogno. È bravissima nell’aggirarsi in questo microcosmo claustrofobico esibendo la sua fragilità, forzando un adattamento disperato all’ambiente, ostinandosi a capire gli altri che la respingono. Dall’altra parte il tedesco è Hovik Keuchkerian, una montagna d’uomo, essenziale nelle sue necessità come nella sua visione della vita, capace in ogni istante di bilanciare i pro e i contro di un lavoro, di un ricordo, di una relazione, di uno sguardo. Un predatore freddo, un serpente intelligentissimo, impersonato da un attore fenomenale nel vestire questa montagna di un’espressione fissa (anzi due: con occhiali e senza) per poi improvvisamente scoprire il suo cinismo senza sensi di colpa, così come una fragilità sorprendente che diventa immediatamente (pre)giudizio feroce.
Isabel Coixet come sempre sa raccontare l’amore attraverso protagoniste uniche perché capaci di rimanere se stesse anche nell’0rrore, che sia eccezionale o quotidiano, di amare e conservare se stesse anche quando tutti gli altri e le altre si perderebbero, con ostinazione e coraggio kiplinghiani. La poesia di Rudyard Kipling, If, declinata al maschile, con Coixet assume un senso al femminile, nel caos e nella ferocia le sue donne sanno resistere alle lusinghe del cedere al conformismo altrui o semplicemente al più forte. Ecco perché la danza liberatoria di Laia Costa è meravigliosa, animalesca, struggente, perché a contatto con la natura (e nel ritorno reale o immaginato, chissà, dell’unico affetto di quell’esperienza devastante, torturato come lei ma rimasto integro) ritrova se stessa proprio a un passo dal precipitare nell’abisso.
Un amor e una protagonista indimenticabile
Laia Costa è un’attrice come raramente se ne vedono e ricorda, in questo, la Valentina Lodovini de La giusta distanza di Carlo Mazzacurati: si intona agli esseri umani e all’ambiente senza farsene contagiare, vibra di ogni emozione, di ogni intemperie, anche metereologica, a ogni sguardo, pur rimanendo misuratissima nell’esprimere tutto ciò, come l’attrice italiana riusciva, per esempio, nel viaggio sulla chiatta nel film suddetto. Ecco perché, ad esempio, nelle scene di sesso, ti scuote profondamente Laia Costa. Perché scevra di ogni enfasi, ti porta spudoratamente dentro di lei, non c’è quasi filtro tra lo spettatore e il dolore, il piacere, la rabbia, il respiro del suo personaggio.
Nat siamo noi, tutte le volte che abbiamo avuto paura e abbiamo provato a nasconderci in un gruppo, in una comunità e in tutte le sue tossicità per divenire vittime complici. Nat siamo noi quando ci siamo ripresi noi stessi, quando abbiamo pianto e poi reagito contro chi era in cima alla piramide di questo ecosistema malato, quando abbiamo scelto noi stessi vedendo lo squallore di chi continuava ad avere paura.
Un amor, in fondo, è innanzitutto quello che dobbiamo provare per noi stessi.
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