“In quanto donna sui trent’anni che sta cercando di districare i nodi della sua educazione sessuale, in quanto bosniaca intenta a osservare la gioventù di oggi e, infine, in quanto femminista, ho sentito l’urgenza e l’obbligo di realizzare questo film”, spiega Una Gunjak, regista e sceneggiatrice di Excursion. Il film, in concorso ad Alice nella città, sezione autonoma della Festa del Cinema di Roma, esplora l’intricato cosmo di un’adolescente in bilico tra la paura del giudizio e la frenetica voglia di crescere.
Iman (Asja Zara Lagumdžija) è una quindicenne figlia e vittima – come tutte le sue coetanee- della società patriarcale in cui vive, che la vuole sottomessa a delle regole di morale e buon costume. Il desiderio di un ragazzo e la brama di diventare grande portano la giovane donna a fingere di essere incinta, auto-confinandosi in una soffocante bolla di finzione. Da una bugia adolescenziale, Iman si trova presto intrappolata in un incubo quotidiano fatto di limitazioni, critiche e sguardi inorriditi, diretti a chi ha rifiutato di conformarsi a ciò che gli altri avevano prefigurato per lei. Excursion attacca tutte le contraddizioni del microcosmo di Iman e di una società – quella bosniaca, in questo caso – che pretende donne contenute e limitate, ma al tempo stesso oggettificate al limite delle loro libertà.
Cosa vuol dire essere “donna, femminista e bosniaca”?
Ho 37 anni, sono in un’età in cui ho già riflettuto abbastanza sui modi e sulle evoluzioni della mia sessualità. Col tempo ho sviluppato una coscienza femminista molto forte che mi ha portata ad interrogarmi sulla mia società, a stabilire che certe cose non vanno bene. Pur essendo andata via dal mio paese a diciotto anni, rimango molto sensibile a ciò che succede lì. In Bosnia i danni lasciati dal capitalismo neoliberale si sono incatenati ad un dogmatismo installatosi in mancanza di altri valori. Tutto questo ha dato come conseguenza un paese fermo in delle sabbie mobili che stanno lentamente mangiando le nuove generazioni. In quanto donna, femminista e bosniaca, quindi, sento di dover parlare.
Il dogmatismo di cui parla ha influito anche sulla percezione del suo film?
Il modo in cui la critica bosniaca parla del film mi rende veramente molto agitata. Excursion uscirà in sala tra quindici giorni, ma nei titoli dei giornali leggo già delle frasi estremamente patriarcali. Qualcuno ha scritto “il primo film è già un maschio” usando il sesso maschile come metafora di qualcosa riuscito bene. Lo trovo aberrante.
Il film riflette le carenze dell’educazione degli adolescenti del suo paese. La spaventa la società attuale?
Quando guardo la tv in Bosnia, mi capita di vedere delle ragazzine di 13 anni vestite da donne adulte che ballano in maniera provocante davanti a uomini di 50 anni. Tutto ciò è vomitevole, e mi sento in obbligo di agire. Pratico così il mio femminismo, mettendo un punto interrogativo a partire dalle mie azioni, da come io mi muovo nella società.
Nella pellicola hanno un ruolo importante i social network, che generano forti aspettative e standard estetici irrealizzabili. Sono un luogo dannoso per la formazione delle giovani donne?
Sì. Ne sono convinta. La loro conseguenza sull’empatia delle nuove generazioni è qualcosa che si sta degradando poco a poco. La società sta diventando un’industria che cerca consumatori per i suoi prodotti. Ciò che trovo particolarmente dannoso, poi, è il fatto che queste ragazze sono sempre coscienti dell’aspetto che hanno: sono costantemente spaventate di non apparire perfette. Io alla loro età ero molto più ridicola e ingenua.
Ha riscontrato questa paura anche durante le riprese?
Certo. Loro sanno sempre qual è il loro profilo migliore, quali sono i lati da tenere più nascosti. È stato molto difficile sul set staccarle da quel tipo di comportamento, farle essere ragazzine un po’ folli, un po’ ridicole, un po’ vivaci, senza posare. Ci siamo riuniti in post produzione con tre ragazze e un ragazzo per doppiare nuovamente una scena. Le reazioni delle ragazze quando hanno visto le prime immagini del film erano tutte “Guarda come sono grassa! Oddio, ho il doppio mento! Guarda che naso enorme!”. Il ragazzo, nel frattempo, si guardava compiaciuto, e con tutta onesta ha detto “Quanto sono figo!”. C’è un’enorme differenza di percezione. Mi sono resa conto che quelle giovani donne stavano vivendo esattamente ciò che il film cerca di denunciare.
Excursion esplora a pieno la dicotomia femminile tra l’imbarazzo della scoperta della propria intimità e l’imposizione sessuale a livello sociale.
È proprio questo il lato che volevo sviscerare. È qualcosa di universale, che succede in ogni società. Si sente ancora più forte, però, in quei paesi con un dogmatismo religioso forte, come la Bosnia. Bisogna capire che non sono solo i genitori a doversi occupare dei figli. Questi adolescenti sono figli della società. Sarà l’intero paese a doversi assumere le conseguenze della loro crescita.
Come dovrebbero essere educati questi figli?
Comprendendo la complessità delle cose. Se la società ti reprime, ti fa sentire che ciò che per i maschi è visto con simpatia, per le ragazze è motivo di vergogna, diventa davvero difficile crescere in maniera corretta. L’adolescenza è un momento nevralgico. Già biologicamente ci si sente un po’ intimiditi e si tenta di non esporsi, se poi tirando fuori parti intime di sé ci si sente giudicati, ovviamente ci si sente repressi.
L’educazione sessuale nelle scuole è anche in Bosnia – come in Italia – una forte mancanza?
Sì, assolutamente. Nello sviluppo del film ho lavorato con l’associazione XY, che cerca di introdurre l’educazione sessuale nelle scuole medie. Tuttavia, i municipi sono spesso governati dall’estrema destra, che si oppone – così come tantissimi genitori – a quest’insegnamento. A mio avviso, non basta studiare biologia: quasi tutti i ragazzi sanno come si fa un bambino. Il problema è piuttosto un altro: bisogna spiegargli le conseguenze. Che siano di un rapporto sessuale prematuro, di una violenza o di qualsiasi cosa che non siano in grado di catalogare.
L’ispirazione per il film nasce da una storia di cronaca vera. Sette studentesse sono tornate incinte da un viaggio di studio, e lei ha riferito di aver visto sui giornali solo inchieste sulle cause che hanno mosso le ragazze, senza mai interrogarsi sulla parte maschile. Anche nella rappresentazione dei media c’è un problema di maschilismo interiorizzato?
Ne sono fermamente convinta. Ho letto questa notizia all’aeroporto a Londra, sul Daily Mail. Non mi sono mai interessata alla veridicità dei fatti; la cosa che mi preme è il modo in cui la vicenda è stata trattata. Tutti erano lì a discutere sull’educazione di queste ragazzine, ad apostrofarle in maniera inammissibile. “Chissà chi sono i loro genitori, cosa come le hanno educate, dove sono cresciute”. Nessuno si è posto le stesse domande al maschile.
I media che hanno riportato questa notizia sono pienamente colpevoli dell’accaduto, perché è un cerchio che non si chiude mai.
Il suo sguardo nel film non è mai giudicante. I giovani attori con cui ha lavorato hanno dato il loro apporto in questo senso?
Il mio desiderio era quello di non avere un giudizio, riuscendo comunque a mostrare la complessità del problema. Conoscendo i ragazzi, parlando con loro, il mio punto di vista si è ammorbidito ancora di più. Li ho esortati a proporre di tutto, a leggere la storia a partire dai loro occhi. Solo così può nascere qualcosa di autentico.
C’è una parte di lei in Iman? Rivede sé stessa adolescente nel suo personaggio?
Nel suo rapporto con Hana, c’è molto del mio legame con un’amica d’infanzia, così come c’è una parte di me nella sua brama di essere desiderata. Credo che ogni giovane donna si senta soggetta a questo sentimento. Ci sono elementi intimi e deboli di me, ho cercato di essere onesta con me stessa. Volevo creare un personaggio complesso e sfaccettato, e Iman è così. Da un lato vorresti urlare per sgridarla, dall’altro senti la necessità di stringerla tra le tue braccia per proteggerla.
Il film ha una fine aperta. Spera di indurre lo spettatore a riflettere?
Non volevo dare risposte, piuttosto far fare domande. I film di questo tipo sono sempre sull’orlo di cadere un po’ nella farsa, però penso che in Excursion non ci sfociamo mai. Se dipingi un personaggio solo come il cattivo, è facile per lo spettatore empatizzare con gli altri e considerarlo l’unico colpevole. La colpa qui invece è di tutti. Tutti siamo coinvolti in questo sistema, tutti ne facciamo parte. Siamo abituati a cercare la colpa negli effetti immediati, ma in realtà risiede sempre nel grande schema.
Excursion è il candidato per la Bosnia al miglior film straniero agli Oscar 2024. Qual è ora la massima aspirazione che ha per questo film?
Sento che ora è al posto giusto. Mi piacerebbe cambiare il mondo, ma sarebbe un intento pretenzioso per un film. Piuttosto è come un sasso gettato in mare che continua a rimbalzare e a fare cerchi nell’acqua. D’altronde è questo il senso delle opere d’arte, che nel loro piccolo muovono la società. Riuscire in questa impresa è tutto ciò che potrei mai aspirare a fare.
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