Quel boogie-woogie sfrenato in Riso Amaro, quasi tribale, tra Vittorio Gassman e Silvana Mangano. La collana scintillante al collo di lei e gli sguardi incuriositi e invidiosi degli astanti. La grottesca scena d’amore tra Marcello Mastroianni e Marina Vlady in Giorni d’amore. La stalla, la paglia, gli occhi degli animali del pollaio che “ci guardano” e “capiscono tutto”. Inquadrature strette, strettissime, praticamente mai viste all’epoca. E ancora le ciocie, le calze lunghe delle mondine, quella sensualità esplosiva eppure mai forzata. Rivedere a 70, quasi 80 anni di distanza i capolavori di Giuseppe De Santis, è tuffarsi in un mare di agrodolce nostalgia.
Il documentario Un’altra Italia era possibile, il cinema di Giuseppe De Santis, di Stefano “ Steve” Della Casa – critico, regista, nonché direttore in uscita del Torino Film Festival – in onda su La7 l’8 settembre alle 22.30, e presentato in Venezia Classici, è un viaggio e un omaggio a uno dei primi teorizzatori del neorealismo italiano. Un grande regista che ha realizzato film passati alla storia del cinema per impegno politico e sociale, ma anche per un uso moderno e innovativo della macchina da presa, che lo ha reso famoso anche all’estero.
“Da quando l’ho conosciuto, nel lontano ’89, siamo diventati molto amici, e sono anni che volevo raccontare la sua storia. È un uomo che avrebbe meritato di lavorare e realizzare più film. Lui stesso ironicamente amava dire ‘voglio essere ricordato più per i film che non ho fatto che per quelli che ho fatto’”, spiega il regista, che THR Roma ha incontrato a poche ore dalla proiezione al Lido.
Il documentario intervalla scene di tutti i film di De Santis – Riso Amaro, Giorni d’amore, Roma ore 11 solo per citarne alcuni – e raccoglie decine di testimonianze, da Paolo Virzì a Iaia Forte, da Fausto Bertinotti a Mauro Martone, Jean Gili, Francesca Reggiani, compresi due grandi recentemente scomparsi: Giuliano Montaldo e Andrea Purgatori, quest’ultimo giovanissimo assistente di De Santis. Lungo poco più di un’ora, il film è uno sguardo sulla vita professionale del regista, non disgiunta da quella privata, in particolare il rapporto con la moglie, l’attrice serba Gordana Miletic, conosciuta nel 1957 durante le riprese del film La strada lunga un anno.
Ricorda il suo sguardo attento e mai banale sulla cultura popolare e contadina degli anni ’40 e ’50, sui temi post bellici, sul ruolo e le problematiche nel mondo del lavoro femminile, definendo il ritratto di un uomo moderno con uno sguardo rivolto al futuro, ma una grande attenzione al presente. “De Santis era un uomo moderno – spiega il regista – raccontava tante storie di donne: penso a Roma ore 11, il mio film preferito della sua cinematografia insieme, ovviamente, a Riso amaro, un film capace di narrare un fatto di cronaca attraverso le storie personali delle protagoniste. Oggi siamo molto sensibili al tema delle donne, ma all’epoca era molto più difficile raccontare storie così. La cosa meno moderna del suo cinema, a parte l’ambientazione contadina, è la ricerca di un cinema fatto di grosse emozioni, cosa che oggi non esiste più. Oggi si fa un cinema di algoritmi che ti dicono di mettere una scena d’amore dopo 30 minuti, un gay dopo 35, un cinese dopo 42, quindi siamo molto più freddi. Il cinema di De Santis invece viene fuori dallo stomaco ed è la cosa che mi affascina di più”.
Il titolo stesso del documentario sembra un’allusione – in bilico tra il romanticismo e il cinismo- a un tempo lontano, un tempo fatto di sogni, progetti e idealismo politico. Un tema, quest’ultimo che non può non stare a cuore di un personaggio come Della Casa – che fu tra i promotori di Lotta Continua tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80. “La tensione che c’era nel cinema per la politica e per le lotte sociali appartiene al passato – sottolinea il critico e regista -. All’epoca (si riferisce al dopoguerra, ndr) tutti speravano in una nuova Italia, un nuovo ordine sociale, ma le cose non sono andate così. Oggi ho l’impressione che di grandi manifestazioni di massa non ce ne siano più: ci si indigna per i fatti di cronaca, ma tutto si esaurisce in fretta, il concetto di identità e lotta sociale si è perso. Credo anche che l’ordine sociale che c’è adesso sia meno forte di quanto si creda, nel senso che tutti pensano che il governo di Giorgia Meloni durerà 10 anni, ma non ne sono tanto convinto. Credo che presto emergeranno i nodi al pettine, e con loro la fragilità di questa classe politica. Un po’ come è avvenuto in Spagna”.
Il documentario – che si candida, o almeno dovrebbe candidarsi, ad essere un must nei licei italiani, per il suo innegabile valore storico– diventa dunque, anche se non dichiaratamente, il manifesto di un’epoca che ormai sembra lontana anni luce. “L’ultimo progetto che Peppe voleva fare si chiamava Il permesso – racconta la moglie di De Santis, scomparso nel 1997 – ci teneva tanto. Dopo la sua morte lo proposi a Mario Martone, un regista legato a lui da un rapporto maestro-allievo: eppure mi disse che il film era troppo lontano da lui, troppo slegato dal tempo attuale”. Ma è davvero così? “Credo che oggi la storia vada più che mai raccontata – conclude Della Casa . E il cinema è una specie di spugna che assorbe la realtà. Vedere film come quelli di De Santis ci fa capire dove eravamo, e dove andremo a finire”.
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