La Festa del cinema di Roma ha sfoderato il film più divertente dell’anno. Per certi versi è arduo definirlo un “nuovo film”: molti dei materiali utilizzati non sono inediti, e la lavorazione delle sequenze girate ex novo risale a prima del 5 luglio 2019, il giorno in cui Ugo Gregoretti ha lasciato questa valle di lacrime. Perché di lui stiamo parlando: del regista più ironico, eclettico, sperimentale e anticonformista che il cinema italiano abbia mai avuto.
Stiamo parlando di Io, il tubo e le pizze, che è a tutti gli effetti un film postumo di Gregoretti. Lo ha coprodotto Rai Cinema e lo distribuisce l’Istituto Luce. È un progetto che il regista aveva elaborato negli ultimi anni di vita, per poi modificarlo in corsa quando si rese conto che non avrebbe avuto abbastanza tempo per finirlo.
Da Sottotraccia a I nuovi angeli
Lo racconta suo figlio Filippo, che compare nel film assieme alla moglie taiwanese, Tai Hsuan Huang, in qualità di accompagnatore e “spalla” del padre. Gregoretti pensava di ricostruire in teatro di posa alcuni degli episodi buffi e surreali che hanno costellato la sua carriera di documentarista e di cronista televisivo, basandosi sul libro autobiografico La storia sono io (il “tubo” del titolo è il tubo catodico delle tv di una volta). Ma messo di fronte alle difficoltà logistiche di una simile impresa ha avuto un’idea degna di lui, ovvero geniale: ha ripreso una serie di interviste e reportage realizzati a suo tempo per la trasmissione tv Sottotraccia, andata in onda su Raitre dal 1991 al 1994.
La passeggiata che Ugo compie con Filippo e Tai fa da cornice a tali materiali, che vengono di volta in volta introdotti e commentati. Nel finale c’è anche un intero episodio di I nuovi angeli, che nel 1962 fu il film d’esordio di Gregoretti (di qui le “pizze” del titolo, che sono quelle della pellicola cinematografica).
Gregoretti cronista dell’assurdo
Ebbene, la qualità e il tono di questi vecchi filmati sono strepitosi. Gregoretti, con spirito di vero cronista dell’assurdo, gira per l’Italia nei luoghi più strani. Una discoteca romagnola dove è in corso la gara “culetti d’oro”, per scegliere le chiappe più belle della riviera. Un allevamento di struzzi dove lui e la troupe rischiano la vita, perché gli struzzi – lo scopriamo con lui – sono pericolosi assassini. Una fabbrica di profilattici in cui una signora batte il record mondiale di collaudo, facendo esplodere i condom per saggiarne la resistenza. Un basso napoletano dove un parrucchiere “di madonne” (intese come statue) convive con un felino che lui stesso definisce “un gatto ricchione”. Un paese del Lazio dove tutti sono convinti che su un muro ammuffito, e pieno di macchie, sia comparso il volto di Gesù.
Dettagli “tecnici”
C’è anche un’intervista a un giovanissimo Rocco Tano, futuro Rocco Siffredi, nella quale Gregoretti scende, con la classe che lo contraddistingue, in dettagli estremamente “tecnici”. È una sequela di frammenti che compongono il mosaico di un’Italia folle, al tempo stesso demente e fantasiosa, nella quale il regista si muove con il perenne sorrisino storto del gatto che ha appena ingoiato il sorcio. Tecnicamente potremmo definirla una “auto-antologia”, in realtà è un autoritratto (la storia sono io, appunto) dal quale emerge, come in un ologramma, il ritratto di un paese. Solo Gregoretti poteva riuscirci. Perché di cineasti così, ahinoi, si è perso lo stampo.
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