Comincia tra le luci di un luna park, finisce nella notte e nel dolore. Tra un estremo e l’altro c’è la parabola di un uomo che nel giro di pochi giorni perde tutto, il lavoro, l’autostima, l’innocenza, la dignità. Tra insegne luminose, cavalcavia brulicanti di auto e luoghi di lavoro dominati dal ricatto e dal mobbing, potremmo essere in una qualsiasi grande città degli Stati Uniti. Ma siamo a Riyad, Arabia Saudita, il giovane protagonista. Occhi ardenti e baffoni neri, si chiama Fahad e prima di entrare nel call center in cui lavora indossa la tipica kefiah bianca e rossa.
Poi preme qualche pulsante, risponde alla prima cliente, forse non gestisce a dovere la conversazione perché poco dopo è convocato in direzione. Ogni telefonata viene registrata e valutata, tre richiami equivalgono a un licenziamento, la lettera di dimissioni è già pronta – firma, ti conviene, è la cosa migliore – ma Fahad non ci sta. Non ha sbagliato nulla, il capo che vuole farlo fuori è stato assunto grazie a lui e adesso fa il duro… Segue rivolta, cacciata, denuncia. Per il fiero Fahad, piccolo borghese dei sobborghi, è finita. Rischia un processo e una sanzione pecuniaria insostenibile.
Per risalire la china si adatta a fare il Mandoob, che è anche il titolo del solido esordio del quarantenne Aly Kalthami visto in concorso a Torino. “Mandoob” però non significa solo addetto alle consegne notturne. “Mandoob” è anche l’uomo compianto a causa della sua morte o della sua solitudine. E ci sono anche significati ulteriori…
Intanto quel nuovo lavoro spalanca all’onesto Fahad possibilità inaspettate. Nelle lunghe notti di Riyad, e nelle case dei quartieri alti, circola anche vino, whisky, merce proibita. Per un giovane squattrinato la tentazione è forte. Così Kalthami ci porta nei gironi meno rappresentati delle società islamiche (tornano in mente solo due film iraniani, peraltro magnifici, Oro Rosso di Panahi e il più recente Leila e i suoi fratelli di Saeed Roustayi).
Perché se una merce è proibita qualcuno sicuramente la vende e qualcun altro altrettanto sicuramente la compra. A caro prezzo. Basta scoprire dove viene nascosta quella merce per sognare una riscossa criminale che sarà, come dubitarne, rovinosa. Intanto però entriamo nelle case, negli uffici, nei ristoranti, negli studi televisivi di Riyad. La sorella di Fahad infatti sogna di lanciare una nuova linea di gelati e partecipa a un contest televisivo per cercare finanziatori. Insomma scopriamo quanto possono essere implacabili e insieme invisibili le barriere di classe in una società integralista come quella saudita. Anche se nelle feste proibite dove tutti ballano sfrenatamente in silenzio, ognuno con la sua cuffia sparadecibel in testa, si intravedono facce occidentali. Come per ricordarci che da lì viene la corruzione, o forse per concedere qualcosa ai guardiani della morale nazionale.
Sia come sia, il buon Fahad, che sognava anche l’amore, perde la faccia e l’onore come il personaggio di un film di Martin Scorsese anni Novanta, cede alla paranoia e al delirio di potenza, insomma si mette in guai decisamente più grossi di lui. Sempre seguito da luci sapienti e da una macchina da presa mobilissima che ha mandato a memoria la lezione del miglior cinema Usa. Forse perché, fatte tutte le possibili distinzioni culturali, le regole dell’ingiustizia e dell’esclusione sociale funzionano più o meno alla stessa maniera. Con un surplus di onore maschile che impone a Fahad l’obbligo di non accettare aiuti economici da sua sorella, anzi di delinquere per essere lui ad aiutarla. E con differenze sostanziali invece sul piano della violenza: estetizzata e glorificata dal puritanesimo americano ma qui sottaciuta o solo suggerita, per pudore religioso o per opportunità politica.
Dal call center all’inferno, andata senza ritorno. Per un paese in cui fino a sei anni fa il cinema era semplicemente proibito, un salto vertiginoso. Chissà cosa ne penserà la giuria.
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