A volte un’intuizione geniale può essere la scintilla per un gran film. Rappresentare le emozioni come fossero persone (Inside Out), immaginare i giocattoli come esseri senzienti (Toy Story) o sperare che la morte, in fondo, non sia che un inizio (Soul). Ma un’ottima idea, da sola, non basta a fare un buon film. È il caso di Elemental, nuova animazione di casa Pixar e film di chiusura del Festival di Cannes (in Italia dal 21 giugno), diretto da Peter Sohn (Il viaggio di Arlo).
Lo spunto: gli elementi naturali (fuoco, acqua, terra, aria) vivono insieme in una città, Elemental City, divisa per quartieri; l’etnia del fuoco, “calda” in tutti i sensi, vive in una vivace periferia popolare, mentre quella dell’acqua – la borghesia intellettuale – abita il quartiere di lusso del centro. Due mondi distanti che si incontrano quando la giovane Ember Lumen (in Italia la voce è di Valentina Romani), figlia di immigrati e commessa nel negozio di alimentari del padre, si innamora del coetaneo Wade Ripple (Stefano De Martino), bravo ragazzo ultra-emotivo di una famiglia bene. I genitori di lei si oppongono (“Sposerai un fuoco!” ruggisce il padre di Ember), e a complicare ulteriormente la relazione c’è un dettaglio non da poco: l’acqua spegne il fuoco, il fuoco fa evoporare i liquidi.
Ardere, evaporare…
Le premesse ci sarebbero tutte. Lo stile espressionista e irregolare di Sohn si adatta alle sfide tecniche imposte dalla premessa “fantastica”, con i personaggi che ardono, s’incendiano (il fuoco), evaporano, si sciolgono (l’acqua), si gonfiano, volano (l’aria) in una coloratissima New York elementale alla Zootropolis, in uno sforzo digitale muscolare.
Ma l’ottima fattura della confezione non basta a riempire il senso di vuoto che si respira nel film, in cui la premessa dell’incontro/scontro fra culture resta in superficie, come un semplice pretesto per dare tridimensionalità a personaggi che hanno poco da raccontare. Il tema caldo dell’immigrazione e del clash culturale si impiglia nelle maglie del politicamente corretto: attenti a evitare ogni riferimento diretto a culture reali, gli autori si limitano ad abbozzare le “etnie” elementali, senza divertirsi abbastanza – Pixar, dove sei? – a inventarne il folklore. Il fuoco è tradizionalista e amante del buon cibo, l’acqua è intellettuale e ha gusto per l’arte: aria e terra restano ai margini, ed è un peccato.
Un futuro migliore
Le differenze sociali che esplodono in conflitto, e il tema di chi abbandona la propria terra in cerca di un futuro migliore – argomenti più che contemporanei, al centro del dibattito politico internazionale – avrebbero meritato un trattamento più serio. Non in termini di gravità, perché la leggerezza deve essere cifra del cartone, ma di profondità. La stessa che ha permesso allo studio negli anni passati di trattare con poesia, e rendere accettabili anche ai bambini, temi ostici come il lutto (Coco) o la terza età (Up).
La storia si aggrappa così intorno ai “problemi” ombelicali di Ember e alla sua relazione con Wade, procedendo rigidamente a blocchi: prima il “problema” del carattere (troppo irruenta per trattare con i clienti), poi quello sentimentale (acqua e fuoco non potrebbero nemmeno toccarsi), infine quello esistenziale (Ember vorrebbe fare l’artista, mica vendere spiedini di lava).
Prodigi digitali
In mezzo, a smuovere letteralmente le acque, una serie di sequenze d’azione che non hanno altra funzione che quella di mostrare il miracoloso prodigio digitale: Ember sul treno che attraversa la città, la partita di basket “aereo”, le sequenze in motocicletta, il fiume che esonda. Attraenti per l’occhio, come la versione videoludica che ne verrà certamente, ma prive di invenzioni creative, di battute fulminanti, di quei geniali personaggi secondari che sono da sempre “firma” della Pixar.
Realizzato tecnicamente con l’aiuto delle intelligenze artificiali, che – come spiegato dallo stesso Pete Docter, direttore creativo Pixar, a THR Roma – hanno velocizzato la resa grafica delle sequenze, Elemental pare scritto dall’algoritmo. Sulla carta ci sarebbe tutto per una grande storia, ma la sensazione è quella di guardare un film cui manca qualcosa che le macchine, ancora, non possono replicare: il cuore.
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