Purtroppo la brutta storia di Nightmare Before Christmas la sappiamo tutti. Per dirla meglio, la brutta storia di Henry Selick. Che poi, brutta, non lo è così tanto, considerando il successo raggiunto negli anni dal film, candidato nel 1994 a un Oscar per i migliori effetti speciali e battuto perché era arrivata una vera e propria rivoluzione della computer grafica, Jurassic Park.
La brutta storia, però, è che ancora oggi, quando si nomina il film sulla crisi mistica e identitaria di un rappresentante della festa di Halloween (mister Jack Skeletron) in favore della magia del Natale, la gente scambia il suo regista Henry Selick con Tim Burton. Nightmare Before Christmas, infatti, è un film di Henry Selick. E no, come si pensa – e si dice a volte, spesso – un film di Tim Burton.
L’autore di Burbank, California, è stato di certo fondamentale, essendo l’ideatore dell’opera in stop motion nata nel 1982 da un suo racconto, scritto in forma di poesia quando lavorava alla Disney, e presentato in anteprima al New York Film Festival nell’ottobre del 1993. Il bello è che Burton non ha nemmeno curato la sceneggiatura del film, affidata a Caroline Thompson, con la collaborazione di Selick stesso e il compositore Danny Elfman.
Ciò che negli anni ha impedito a Nightmare Before Christmas di classificarsi come una pellicola di Henry Selick, è la mano e lo stampo riconoscibile già nei primi anni novanta del compare, e non importa se “non è giusto che tutto il merito vada a Tim Burton”, come dichiarato da Henry Selick nel 2022 per l’uscita del suo Wendell & Wild a AV Club.
Avere un proprio tratto distintivo. Farsi riconoscere. Avere quello che Billy Wilder diceva del suo mentore Ernest, il “Lubitsch Touch”. Nella storia dell’arte, della musica, del cinema essere individuabili è la sola sicurezza per superare la prova del tempo, e per rendersi unici in un panorama altrimenti troppo grande, vasto, variegato. Se involontariamente lo ha fatto Tim Burton dettando uno dei casi più eclatanti con Nightmare Before Christmas, forse capiterà anche a Charlie Kaufman, nuovamente per un’opera d’animazione: Orion e il buio.
Orion e il buio, paura di tutto
Esordio al lungometraggio per Sean Charmatz, basato sull’omonimo libro di Emma Yarlett (che appare come simpatico easter eggs sul finale del film), l’opera non è la prima avventura in animazione (c’era stato Anomalisa nel 2015) del creatore di Essere John Malkovich, Se mi lasci ti cancello e Sto pensando di finirla qui – quest’ultimo targato Netflix, come la pellicola animata – ma di certo ideato per un pubblico di bambini/famiglie.
“Sean ed io siamo grandi fan di Charlie”, ha raccontato il produttore Peter McCown a CoomingSoon.Net. “Quando ha ricevuto il libro da Emma Yarlett ci ha affondato i denti. È successo anni fa. Credo che quello dell’infanzia sia il suo spazio, può esprimersi al massimo della creatività. E, questo, non è il solito film d’animazione”.
E, infatti, non lo è. È un film di Charlie Kaufman. Un film d’animazione di Charlie Kaufman. Esattamente come capitato con Nightmare Before Christmas. Orion è un ragazzino di undici anni – doppiato in originale da Jacob Tremblay – ha una cotta per Sally e paura, più o meno, di tutto. Di intasare il water della scuola e innondare l’intero istituto, di sviluppare il cancro a causa delle radiazioni del cordless, di prendere qualche infezione con delle punture di api e, per non farsi mancare niente, degli oceani. Un puro, semplice orrore per gli oceani.
E, su tutto, il buio. Il buio racchiude ognuna delle fobie del bambino, amplificandole, contro cui Orion urla ogni sera. Ma stanco di quei lamenti che lo tormentano durante il suo lavoro – portare la notte nel mondo – un giorno Buio si presenta nella camera del protagonista, strappandolo dal letto e portandolo con sé alla scoperta delle bellezze dell’oscurità.
Quindi, ricapitoliamo. Da una parte un ragazzino, Orion, che già pensa ai tumori, che invece di accarezzare i cani ne teme il morso e che preferisce non alzare la mano in classe perché, anche se non si sa come, la cosa potrebbe portarlo inevitabilmente alla morte, forse per la troppa vergogna. Dall’altra, invece, un elemento essenziale per l’esistenza di umani, animali e creature sulla terra. Il Buio, che questo suo sentirsi costantemente rigettato e poco apprezzato, lo riversa in una serie di idiosincrasie e insicurezze che potrebbero portalo addirittura ad abdicare al suo ruolo.
E, nel film, tutto un altro film: una scatola nella scatola in cui non solo seguiamo la storia di Orion, ma di una sua versione adulta. Che poi, a propria volta, andrà a confluire nel racconto principale.
Il bambino che è in noi
Orion e il buio è l’equivalente animato dei drammi esistenziali di Charlie Kaufman che rifiutano in toto il manuale di sceneggiatura di Robert McKee – ricordate Il ladro di orchidee? – e a cui applica il suo fare visionario. Un film che ai ragazzini insegna a non avere paura del buio come di qualsiasi aspetto terrificante della vita – o meglio, averne paura, ma affrontarlo lo stesso – e lascia scioccati gli adulti che possono rivedersi molto più in un ragazzino di undici anni di quanto avrebbero mai potuto immaginare. Forse più di qualsiasi personaggio partorito dalla mente di Kaufman.
Lo dice anche Orion, noi che lo stiamo guardando siamo bambini, tutti, proprio come lui, facendosi forte della sua natura da cartone animato, in questo bizzarro sodalizio tra l’autore e la Dreamworks. Al contempo, però, lo sceneggiatore sta stuzzicando la parte primordiale di noi, la più emotiva, quella che ci fa sentire ancora piccoli e spaventati davanti alle incombenze della vita, alla sua ineluttabilità.
Eventi che ci fanno diventare grandi, e che possono presentarsi prima o dopo nell’esistenza di ognuno, ma la cui conclusione è sempre la stessa: c’è una fine, bisogna accettarlo e, solo così, si può andare avanti.
È il cerchio della vita, impartito da un altro lavoro animato, Il re leone entrato nella storia della Disney e del cinema, che in Orion e il buio ha una propria circolarità. Ed è anche il destino delle storie, venire tramandate, cambiare, modificarsi, non avere mai un’autentica fine, per fare apprendere alle persone che non bisogna avere paura delle sfide quotidiane – i miti greci sono stati inventati con questo fine, perché uomini e donne potessero dare una spiegazione ai fenomeno naturali e imparare a fronteggiarli. E che nell’opera di Sean Charmatz (ma sarebbe bene dire di Charlie Kaufman) hanno lo stesso spirito di collettività, di condivisione.
Un aggiungere un pezzo, e ancora un altro pezzo a propria volta, così che ognuno scovi gli strumenti per fronteggiare i propri nemici, le proprie incertezze, le paure. Tramandare un terrore atavico insieme al segreto per superarlo. Una chiave con cui aprire le porte al futuro (che sia la crescita, l’età adulta, il domani). Sapendo che ci saranno l’insonnia, i sogni, i rumori sinistri a rimpinguare il sonno e la quiete. Per farci poi abbracciare e accogliere il buio.
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