“Quando l’ho visto, ho pianto. Non so come farò all’anteprima insieme a tutti gli altri. Sarà un’emozione ancora più forte”. Contattiamo Alessandro Piaviani a poche ore dalla prima nazionale di Nata per te, il film diretto da Fabio Mollo – in sala dal 5 ottobre – che racconta la storia vera di Luca Trapanese, primo padre gay e single adottivo d’Italia, e della piccola Alba, la sua bambina con sindrome di Down. Nella pellicola Piaviani, 30 anni, interpreta Lorenzo, il fidanzato di Luca (Pierluigi Gigante), che attraversa un forte conflitto. Vorrebbe essere padre ma vive la frustrazione di un paese che lo discrimina.
“Credo che tutti i film che raccontano la realtà siano politici. Anche se non desiderano esserlo. Nel nostro caso raccontiamo una storia vera che fa parte della realtà del nostro paese” sottolinea a THR Roma l’attore lombardo. “La storia di Luca e Alba, ma anche delle possibili famiglie che si barcamenano là fuori. Il film riflette sul concetto di famiglia. Nata per te in questo senso non si pone limiti, perché mette in scena una famiglia dove c’è amore, indipendentemente dalle persone che la compongono”.
Da Il padre d’Italia a Nata per te, Fabio Mollo ha raccontato storie dalla forte valenza emotiva e sociale. Che tipo di regista ha trovato?
Sono stato contentissimo di aver avuto l’opportunità di partecipare a questo progetto con lui. Lo tenevo d’occhio da un po’. Mi ricordo quando vidi Il padre d’Italia anni fa. Ero ancora in Accademia. Pensare di aver fatto un film con Mollo ora mi fa sentire strano. Ha un modo di dirigere molto preciso. Sa ciò che vuole, ma ha anche un grande rispetto per gli attori.
Nel film condivide delle scene d’intimità con Pierluigi Gigante.
È sempre importante che ci sia affinità tra gli attori, non soltanto nelle scene intime. Non è scontato. Nel nostro caso ci siamo trovati benissimo. Non voglio dire che sia stato facile, perché non è mai facile girare nulla, secondo me (ride, ndr). Però è stato bellissimo. Sul set ci siamo serviti di un intimacy coordinator, una figura professionale molto importante. In molti storcono il naso, ma non capisco perché. Abbiamo gli stunt coordinator, i coreografi, i vocal coach. Tutte realtà a supporto dell’interpretazione. Mi sembra ovvio che ci sia anche una persona incaricata di occuparsi che le scene intime siano girate nel rispetto degli attori che le interpretano.
Com’è andata?
Abbiamo parlato con lei e con Fabio stabilendo quali fossero le cose che volevamo e non volevamo mostrare, quelle in cui ci sentivamo a nostro agio. E da lì in poi siamo andati liberi. In quelle sequenze si entra in rapporto con un altro corpo in maniera diretta. È importante mantenere un atteggiamento professionale e restare in ascolto dell’altro. Perché non sappiamo come possa reagire.
Data l’importanza e l’attualità dei temi trattati nel film, chi vorrebbe che vedesse Nata per te?
Tutti. Anche quelle persone che credono che certi tipi di famiglie non abbiano gli stessi diritti di altre. Non riesco a capire cos’è che li spinga a non riconoscere tutte le famiglie come tali. Spero che questo film possa mostrare loro qualcosa che non hanno mai visto, e che magari possano cambiare idea. Credo che le cose si debbano fare anche se non tutti sono pronti ad accettarle. Non serve aspettare che tutti siano aperti al cambiamento, perché il cambiamento è già arrivato.
Ha partecipato a pellicole internazionali (House of Gucci, The Two Popes, ndr) e a film come La bella estate e Nata per te. Che percorso sta seguendo nella sua carriera?
Un attore può fare tutti i piani che vuole, ma poi deve confrontarsi con la realtà. L’attore lo fa la possibilità. Abbiamo bisogno di occasioni, e non sempre quelle che arrivano sono quelle che vorresti. Sto cercando di costruire un certo percorso. Sia La bella estate che Nata per te sono progetti interessanti, stimolanti e molto diversi tra loro.
Una delle condizioni che mi spingono a scegliere un ruolo è che il personaggio si discosti da ciò che ho recitato in precedenza. Che sia ricerca, gioco personale e stimolo. Vorrei avere sempre la possibilità di spaziare, di incontrare tipologie umane diverse.
La possibilità di confrontarsi con registi, attori, maestranze straniere è un arricchimento?
Per me è stato un tarlo continuo. Vivo a Londra da cinque anni, dove ho studiato e ho iniziato a lavorare. Mi piacerebbe continuare su questo doppio binario, creativamente molto stimolante. Recitare in una lingua diversa dalla propria, ma che conosci molto bene, è come se facesse scattare un altro processo psicologico. Quando leggi un testo che non è nella tua lingua madre, le parole sono slegate da memorie e preconcetti. Mi sento molto più libero.
Quali sono le differenze maggiori tra l’industria londinese e quella italiana?
A Londra anche la scena teatrale è fresca. C’è un continuo ricambio di attori e una tradizione contemporanea di scrittura molto prolifica. In Accademia ci capitava di leggere testi scritti la settimana prima, appena messi in scena nei teatri del West End. Mi sembra che ci siano più possibilità. In Italia è un po’ più difficile. Magari qui si scopre un attore, che per un po’ lavora moltissimo. E nel frattempo non nascono altre opportunità per interpreti più giovani. Invece a Londra l’impressione è che – nonostante tutte le difficoltà del caso – ci sia un ricambio generazionale e di mezzi tra cinema, televisione, teatro.
Delle esperienze internazionali avute finora qual è stata la più formativa?
The Little Drummer Girl di Park Chan-wook. Anche solo avere la possibilità di partecipare a un progetto del genere ti fa dire: “Ma sta succedendo veramente?”. È stata un’esperienza magnifica. Ho dovuto prendere la patente della moto e guidare a Londra durante una tempesta di neve. Lavorare a quei livelli, incontrare Park Chan-wook, vedere il modo in cui dirige e incontrare Florence Pugh, che all’epoca (il 2018, ndr) era già un talento incredibile, ma non era ancora diventata una star.
Ha lavorato in House of Gucci, uno dei film che Pierfrancesco Favino ha indicato come esempio di produzioni straniere incentrate su storie italiane che dovrebbero scritturare attori italiani. Qual è la sua opinione?
Credo che la polemica sia stata strumentalizzata e ingigantita, e forse si è andati un po’ oltre. Ma è vero che si dovrebbe prestare molta attenzione, quando si raccontano storie che non ci appartengono e che non fanno parte della nostra cultura. Bisogna averne rispetto. Ma è un discorso che si fa soprattutto nei confronti di realtà storicamente vittime di rappresentazioni stereotipate e irrispettose.
Ad esempio?
Come attori dovremmo avere la possibilità di interpretare qualsiasi aspetto dell’umano. Detto ciò, esiste un problema di rappresentazione. In un mondo ideale sarebbe stupendo se tutti potessero interpretare qualsiasi ruolo. Ma la verità è che a certe persone non vengono date le stesse possibilità. Spero che un giorno la situazione si ribalti, ma in questo momento non è così. Se un attore non transessuale volesse interpretare un personaggio transessuale, la domanda che dovremmo porci è: “Se diamo il ruolo a lui, attore cisgender, quale ruolo affideremo all’attore transgender?”. All’interno della nostra industria ci sono una serie di categorie di attori che non hanno accesso a tutti i ruoli, nemmeno quelli che aderiscono maggiormente alla loro realtà, e che sarebbe ovvio e logico affidargli.
Che rapporto ha con la critica e la stampa? La segue o la ritiene marginale rispetto al suo lavoro?
Non credo sia marginale, fa parte del gioco. È anche uno dei meccanismi che permette anche al nostro lavoro di essere conosciuto e di esistere. Poi non è sempre facile. Tanti attori più grandi di me mi hanno consigliato di non leggere troppo. Non sempre ci riesco. Cerco sempre di ricordarmi che i personaggi che interpreto e le storie che racconto sono altro rispetto a me. Per vivere le cose serenamente devo fare un lavoro quasi dissociativo.
Cosa c’è nel suo futuro professionale?
Una cosa certa è certa: sarò in Italia per un bel po’ di mesi, perché riprendiamo a girare la seconda stagione di Blocco 181.
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