Nel dicembre del 1973, esattamente cinquant’anni fa, uscirono nei cinema italiani due film completamente diversi eppure straordinariamente affini: La grande abbuffata di Marco Ferreri e Amarcord di Federico Fellini. Furono, per così dire, “i film di Natale”: i cinepanettoni del 1973. E la definizione, a due raffinatissimi gourmet come Ferreri e Fellini, non sarebbe affatto dispiaciuta.
Anni dopo – il film in uscita, se ben ricordiamo, era I Love You – andammo a intervistare Marco Ferreri a casa sua, un magnifico piano alto in un palazzo signorile del Ghetto di Roma, in piazza Mattei, davanti alla fontana delle tartarughe. L’intervista (piacevolissima) ebbe luogo nel salotto, tutto bianco, con pochissimi mobili. Sul tavolo c’era un grande vassoio di ceramica pieno di mandarini. Saranno stati cinquanta, sessanta. Marco ci disse di servirci, se volevamo. Ne mangiammo uno, forse due, per cortesia. Alla fine dell’intervista sul vassoio c’erano solo le bucce. Gli altri 48 mandarini (diciamo cinquanta meno due, per stare stretti) li aveva mangiati lui nel giro di un’ora.
Federico e i tortellini
In quanto a Fellini, era famoso per non ordinare nulla al ristorante. Diceva sempre di non aver fame. Poi però aveva la curiosa abitudine di assaggiare i piatti di tutti. “Cos’hai preso, tesorino? Mi fai sentire?”, e alla fine aveva mangiato il triplo di tutti gli altri. Noi avemmo l’onore di essere seduti dietro di lui sull’aereo che nel 1987 ci riportava in Italia da Mosca, dove Intervista aveva appena vinto il primo premio del festival della capitale sovietica. Accanto a lui sedeva Gino Agostini, leggendario cinefilo bolognese creatore del Cidif (Consorzio Italiano Distributori Indipendenti Film, un circuito di distributori emiliani), uomo simpaticissimo e di imponente stazza.
Fu una delizia ascoltare i loro discorsi, intervenendo solo di rado: per tutto il viaggio parlarono di tortellini e dei posti migliori dove mangiarli, a Bologna e a Roma.
Naturalmente il cibo e la cucina sono centrali in La grande abbuffata, dove quattro personaggi che hanno lo stesso nome degli attori che li interpretano (Ugo, Marcello, Philippe, Michel: Tognazzi, Mastroianni, Noiret, Piccoli) si ingozzano di cibo fino a morirne.Amarcord parla d’altro, e c’è però una scena meravigliosa a tavola, quando la famiglia di Titta litiga fino alla sfinimento e Pupella Maggio (la mamma, doppiata da Ave Ninchi) fa gli occhi strabici indicando il pentolone del pranzo e gridando “Io vi metto la stricnina nella minestra!”.
Ma come dicevamo, i due film parlano della stessa cosa: della natura profonda dell’uomo e della crisi del maschio, costretto a confrontarsi in Amarcord con l’oscena supponenza virile del fascismo, in La grande abbuffata con il tragico svuotamento del suo ruolo. La scena di Amarcord che ridicolizza la mascolinità è quella in cui Titta si perde fra le enormi tette della tabaccaia, prima compiacente poi sprezzante: pochissimi notano che, per motivi apparentemente misteriosi, sulla parete della tabaccheria c’è un ritratto di Dante Alighieri, illuminato in modo sinistro dalla lampada oscillante.
Forse il viso del sommo poeta ci suggerisce che siamo negli Inferi, e che quella donna enorme è una divinità dell’oltretomba, una Proserpina aggressiva e antropofaga. In La grande abbuffata i quattro maschi sono ridicoli e sfottuti fin dall’inizio. Lì, anziché Proserpina, c’è una dea simpatica e accogliente, la maestra Andrea Ferréol che aiuta gli uomini a compiere il loro destino.
Ci è capitato più di una volta di parlare con Andrea Ferréol, donna di rara simpatia e intelligenza, e di ridere con lei delle critiche che all’epoca bollarono La grande abbuffata come un film maschilista e misogino. Era vero esattamente il contrario, e Andrea lo sapeva – lo sa – benissimo. Fellini temeva le donne pur idealizzandole, Ferreri le adorava per quello che sono. Tutto il suo cinema racconta la crisi storica del maschio e ipotizza il potere femminile, perché come recita il titolo di un suo film Il futuro è donna.
Certo, la parte più divertente del racconto di Andrea sulla “prima” del film a Cannes, nel maggio ’73, è quello che successe dopo. La proiezione fu accolta da fischi debordanti e applausi scroscianti, il pubblico si divise in parti quasi uguali e lo scandalo cominciò subito. Ferreri era esaltato. Gli attori, insomma: Mastroianni era un po’ spaventato, Tognazzi si divertiva. Ma come canta De André “una notizia un po’ originale non ha bisogno di alcun giornale, come una freccia dall’arco scocca, vola veloce di bocca in bocca”.
Mezz’ora dopo il caos in Sala Grande, tutta Cannes sapeva. Era ora di cena, bisognava trovare un ristorante. Li respinsero tutti! Nessun ristoratore della Costa Azzurra, categoria di alta e provata moralità, voleva sfamare quel branco di zozzoni. Rimasero digiuni, o forse rimediarono qualcosa in albergo, punizione davvero esemplare per cinque formidabili mangiatori come Ferreri e i suoi attori. Del resto, di Tognazzi sapete tutto; Mastroianni era un cultore della cucina… di sua madre, per lui nulla valeva la pasta e fagioli di mamma; Noiret – ne abbiamo avuto conferma sia da Mario Monicelli sia da Giuliano Montaldo – era il vero raffinato della squadra, l’unico che a una cena di gala avrebbe saputo spiegarvi quale bicchiere e quale forchetta usare per ogni vino e per ogni portata.
Monicelli raccontava che durante le riprese di Amici miei il maggior divertimento era andare ogni sera in una trattoria toscana diversa; ma Noiret, in quelle cene, era stupito dal fatto che a tavola si parlasse… di cibo! Ed è vero: noi italiani abbiamo l’abitudine, mentre mangiamo, di parlare di ciò che abbiamo mangiato o mangeremo in altre occasioni. E Noiret si lamentava: “Stiamo mangiando divinamente e voi mi parlate di dove mangeremo domani, ma godetevela!”.
Già, Amici miei. Un altro gruppo di maschi che esorcizza la morte facendo scherzi. Era un’idea di Pietro Germi realizzata da Mario Monicelli, ed è l’altro grande film che due anni dopo La grande abbuffata e Amarcord mette in scena la fine del maschio borghese occidentale. Nel film di Ferreri i maschi si suicidano mangiando, in quello di Monicelli la buttano in caciara.
Alla fine, il film più terribile è quello di Fellini, pur così nostalgico e divertente: lì, i maschi diventano fascisti. E danno vita al regime più maschilista, più violentemente puerile che sia mai esistito. Il dubbio è che l’Italia di oggi, con il suo tragico record di femminicidi, sia la versione horror dell’Italia di Amarcord.
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