“C’è chi vuole fare un film e spiegar cos’è la morte”. Lo cantava il rapper romano Tutti Fenomeni nel suo brano, Il grande Modugno. Era il 2022 e un anno dopo il cantante 27enne, nato Giorgio Quarzo Guarascio, sarebbe stato il coprotagonista di Enea, l’opera seconda scritta e diretta da Pietro Castellitto. Che nel suo film, effettivamente, vuol proprio “spiegar cos’è la morte”.
È un’opera funebre, Enea. Un film che racconta del passaggio di Castellitto junior, 31 anni, dall’età dell’adolescenza a quella adulta, come se il regista stesse costruendo un percorso cinematografico in parallelo a quello esistenziale, fin dall’opera d’esordio, I predatori. Pellicole folli, liberissime le sue. Eppure vivide nel descrivere due aspetti del Castellitto-cineasta e del Castellitto-giovane: da una parte uno stile rivoluzionario, infantilmente e rabbiosamente inquieto, dall’altro la voglia (e la paura) di “spaccare tutto”. Uccidendo i padri. O decidendo di dirigerli.
Enea è coerente con l’esordio del 2020 – miglior sceneggiatura alla Mostra di Venezia nella sezione Orizzonti – e insieme un passo avanti. Castellitto è forte del riconoscimento ricevuto, ma pur sempre consapevole di essere sulla soglia nebbiosa e confusa dei trent’anni: quella in cui ci si vuole sentire ancora piccoli, mentre si osserva l’arrivo dell’età adulta.
A produrre Enea, del resto, è un cineasta che ha sempre avuto particolarmente a cuore le narrazioni sui giovani. Sono di Luca Guadagnino le più importanti storie d’amore contemporanee, con i coming of age dal cinema (Chiamami col mio nome, Bones and All) alla serialità (We Are Who We Are). Ed è sempre Guadagnino ad aver dato fiducia alla visione delirante di un regista e protagonista – insieme al Valentino di Guarascio – che deve decidere se diventare maturo o meno. Consapevole di una conseguenza: diventare adulti significa iniziare ad accogliere la possibilità della fine.
L’urgenza del presente: Una sterminata domenica e Patagonia
È sorprendente come questa tensione di morte, a suo modo piena di effervescenza, accomuni due opere che arrivano in sala nello stesso momento – il 14 settembre – entrando per incanto in dialogo con il film di Castellitto: Una sterminata domenica di Alain Parroni e Patagonia di Simone Bozzelli, esempi di un cinema italiano che non dimentica i giovani – anche quelli che arrivano a realizzare la propria opera prima dopo tanto penare.
Sono storie urgenti, irruente, che arrivano dalla biografia dei registi, da turbamenti vissuti in prima persona, sulla propria pelle, trasferite dal cinema agli spettatori.
Anche Una sterminata domenica ha un produttore di rilievo, Wim Wenders, che si è preso carico di un film in cui Fandango ha accettato di investire solo a patto che Parroni trovasse un secondo produttore. La Roma al centro del film è quella della periferia, luogo che ha ormai sovraccaricato l’immaginario della Capitale, ma si percepisce l’urgenza del regista e sceneggiatore. Si capisce che Una sterminata domenica nasce dalla volontà di esprimere il disagio autentico dei suoi tre protagonisti.
E sebbene in quella Roma ai confini aleggi un’angoscia soffocante, nella pellicola resiste anche un gran senso di speranza. C’è una vitalità inaspettata persino nell’opportunità di diventare genitori, ad appena vent’anni: “Meglio che vecchi babbioni”.
Un’opera in cui, come Castellitto in Enea, Parroni (che di Pietro è coetaneo: 31 anni) si interroga su cosa voglia dire credere: trascorrere le proprie giornate divisi tra la noia e il lavoro, tra i corridoi dei centri commerciali o sui ponti della città eterna. Mettere in dubbio il proprio futuro, senza perdere la voglia di incontrarlo. Capire come si possa lasciare il segno. Non è forse speranza, questa?
La speranza del futuro
Anche in Patagonia è al centro un bambino. Sta crescendo in una roulotte, in mezzo ai rave. Il piccolo Sebastian ha pochi mesi e Yuri e Agostino devono badare a lui. Ma anche qui, alla presenza di una creatura innocente, si avverte continuamente la sensazione che stia per accadere qualcosa di terribile. Che quella scintilla di “futuro” possa improvvisamente spegnersi. Un senso di costrizione e di prigionia che in Patagonia si costruisce attraverso i due personaggi principali. La roulotte-gabbia come un carcere emotivo: quello in cui Yuri e Agostino sono imprigionati.
Una storia di abuso sentimentale, di manipolazione e discutibili squilibri di potere, quella raccontata da Bozzelli, 29 anni. Yuri è un bambino nel corpo di un (quasi) adulto, indossa vestiti più piccoli della sua taglia, poi più grandi, sempre inadeguato. Agostino lo tiene al guinzaglio, in una montagna russa di strazi emotivi. Yuri vorrebbe sentirsi adulto, vorrebbe scappare verso la sua Patagonia, terra di libertà e di fuoco. Invece è incatenato. Un film che è caldo, corpi, sporco e sudore tangibili anche dalla distanza di una poltrona cinematografica.
Patagonia e Una sterminata domenica si fanno riflesso di una certa nuova intraprendenza del cinema italiano, che guarda a un futuro problematico, ma non più impenetrabile, attraverso una fessura che si fa sempre più larga. Un varco aperto cinque anni fa dai fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, oggi 35enni, con il loro debutto La terra dell’abbastanza.
Non è un caso che sia Parroni che Bozzelli abbiano frequentato la “scuola” dei gemelli, lavorando nelle retrovie dei loro film, da Favolacce ad America Latina. Morte e vita si mescolano in un cinema che dimostra come, a volte, sia necessario bruciare per tornare a vivere. O come cantava Caterina Caselli nel 1970, a 24 anni: “Si muore un po’ per poter vivere”.
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