“È l’architrave umano oltre che artistico su cui abbiamo potuto costruire questo progetto”. Damiano Giacomelli definisce così Giorgio Colangeli, protagonista del suo esordio al lungometraggio, Castelrotto, film presentato al Torino Film Festival in cui presta il volto ad Ottone, un ex cronista locale e maestro elementare in pensione che sfrutta un misterioso misfatto che scuote la comunità di un paesino appenninico per riprendere la penna in mano e vendicarsi di un vecchio torto subito. Il suo piano è chiaro: manipolare il racconto del nuovo crimine per far accusare gli uomini che gli hanno rovinato la vita. Un revenge movie sulle fake news di paese, guidato da un testardo Donchisciotte di provincia.
Il protagonista del suo film vive in una casa che affaccia su una piccola piazza che ricorda un palcoscenico teatrale.
La ricerca della casa di Ottone è stata l’esigenza principale che ci ha guidato nelle fasi iniziali. Penso di aver visitato 40/50 paesini nelle Marche. Cercavo una casa che, per l’appunto, avesse questo affaccio sulla piazza che potesse aiutarmi a raccontare uno spazio a metà tra pubblico e privato. Perché nei paesini succede che uno spazio pubblico come quello di una piazza possa diventare quasi un cortile di una casa privata. Come accade nel film, delle esigenze estremamente private – come la vendetta che cerca Ottone – influiscono pesantemente sulla dinamica della comunità. Sono cresciuto in un paesino e abitavo in una casa che affacciava sulla piazza anch’io. Quella dinamica la conosco bene.
Ottone è un uomo chiuso in una forte rabbia ma che ha in sé anche una grande vitalità. Come nasce questo personaggio, anche in relazione al contesto in cui vive?
Il film è nato da un mio interesse per la cronaca locale dell’entroterra maceratese. E man mano che raccoglievo materiale su fatti e fattarelli accaduti in zona raccontati dalla voce dei cronisti locali nel periodo immediatamente precedente al terremoto mi sono reso conto che venivano filtrati dal punto di vista di un personaggio estremamente specifico. Ottone è nato così, non dall’esterno, ma da uno sguardo che pian piano cominciavo a capire. Intorno a questo ho costruito quella che era la sua vicenda. Una delle cose che mi interessano di questo personaggio, e di quando scrivo in generale, sono le contraddizioni. Il fatto che lui in una ricerca di vendetta contro nemici che non sappiamo bene se siano reali o se li ha costruiti lui, riscopre una passione per la scrittura, per l’investigazione, che riattiva un’energia positiva in lui.
Un lavoro che si estende anche ai personaggi secondari.
Ho cercato di lavorare su tutti i personaggi del film provando a non banalizzarli o semplificarli e di restituire una complessità che è propria dell’essere umano, ma in particolare nel raccontare una storia di provincia e di paese. Contesti in cui nel cinema italiano c’è maggiore semplificazione. Mi sembrava interessante, come fa una letteratura o un cinema statunitense sulla provincia americana, restituire una complessità fatta anche di contraddizioni, desideri, ricerche, errori.
Nel suo film ha un ruolo anche il terremoto che ha colpito le zone in cui è ambientata la storia.
Nel periodo immediatamente precedente al sisma c’era una biodiversità di piccoli racconti, voci, aneddoti che, in alcuni casi, hanno quasi un effetto ironico sul lettore. Con un evento catastrofico come quello di un terremoto sono stati in qualche modo annientati a favore di un tono unico, emergenziale, molto più potente, che però ha spazzato via questi toni a cavallo tra cronaca e letteratura. Il mio non è un film che parla del sisma, ma l’ho utilizzato come se fosse un evento che annienta questi piccoli percorsi individuali di comunità e che, in qualche modo, crea questo grande destino comune.
Come è andata con gli attori non professionisti?
Dal punto di vista della messa in scena ho cercato un naturalismo anche estremo in alcuni casi. Dalla direzione della fotografia all’inquadratura, dalla costruzione della scenografia ai costumi fino alla direzione della recitazione. Un naturalismo che bilanciasse anche dei passaggi paradossali della scrittura. Per quanto riguarda la recitazione, sin dall’inizio c’era l’intenzione di mixare un cast di attori formidabili con dei non professionisti, parte dei quali ho coinvolto nel paesino in cui abbiamo girato, Torchiaro, in provincia di Fermo. La troupe si è trasferita nelle case libere in piena emergenza Covid. Incontravo gli abitanti per strada e mi rendevo conto che sarebbero stati perfetti per alcuni ruoli. Quando arrivavano sul set gli attori principali, cercavo di coinvolgerli in degli scambi, in delle prove. È stato un flusso naturale.
Nel film ci sono delle parentesi quasi oniriche. Come le ha realizzate?
La parte del film più visionaria nasce dalla natura del personaggio principale. Ottone, nel perseguire questa crociata anche piuttosto ottusa, risveglia uno spirito visionario che viviamo in alcune sequenze. Le abbiamo costruite con uno spirito fortemente artigianale. Sono anche il coproduttore di Castelrotto. Tra i tra tanti svantaggi, se c’è un vantaggio nel produrre il film che dirigi e scrivi, è che non ti illudi sul campo da gioco in cui giocherai. E quindi cerchi di costruire, appunto, la tua messa in scena su quello che sarà fattibile, senza perdere nulla nella poesia che porti dentro il film.
È stato difficile realizzare un’opera del genere, trovare qualcuno che creda nel progetto?
Per tutta una serie di fattori, dal periodo d’emergenza pandemica al luogo d’ambientazione fino alle caratteristiche della sceneggiatura, c’è stato un momento in cui ho capito che l’unico modo di realizzare questo progetto era l’autoproduzione con la mia società, la YUK! film. Abbiamo ottenuto i primi fondi da un bando regionale di Marche film commission e alcuni sponsor collegati al comune di Ponzano di Fermo, dove abbiamo girato. Poi in fase di post-produzione è entrata in partecipazione anche la Malfè film di Torino e infine il tax credit che ci ha permesso di chiudere il budget.
Da questo punto di vista, la difficoltà principale per me è stata far convivere l’impegno costante dedicato alla messa in scena del film con gli adempimenti produttivi. Una volta presa l’abitudine però, questo mi ha concesso una visione d’insieme sull’intero processo realizzativo. È un’esperienza d’insieme che ad esempio un pittore o uno scultore possono avere più facilmente, ma nel cinema, che ha una componente industriale più forte, è estremamente raro. In questo senso è stata un’esperienza unica, che sono contento di aver vissuto fino in fondo.
È tra i cofondatori di una scuola di cinema e il direttore artistico di un festival, Borgofuturo. Sono nati per volontà di portare cultura dove spesso è difficile trovare anche solo un cinema?
Officine Mattòli è una scuola di cinema indipendente che abbiamo creato nel 2010, quando noi per primi avevamo bisogno di formarci. Diversi partecipanti al cast e alla troupe di Castelrotto vengono da lì e abbiamo condiviso un percorso comune. Il centro è ancora attivo e i prossimi corsi inizieranno a inizio 2024. Il mio punto di vista è interno. È innanzitutto un’esigenza mia e delle persone che ho vicino di poter avere uno spazio di confronto. Ma andando avanti mi rendo conto che quello che facciamo ha un valore anche rispetto al contesto più ampio.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma