Claudio Bisio ha sessantasei anni, ma è ancora un bambino. O, almeno, è così che si sente. In fondo, si sa, per mantenersi giovani bisogna cambiare sempre pelle. Non che l’attore e conduttore, piemontese trapiantato a Milano all’età di cinque anni, si sia mai fermato. Reduce dal 2022 in cui ha recitato nel corale Vicini di casa di Paolo Costella, passato alla fiction su Rai Uno con Vivere non è un gioco da ragazzi nel 2023 – con, nel mezzo, il tour a teatro di La mia vita raccontata male di Giorgio Gallione – Bisio è riuscito a realizzare il suo primo film da regista, in uscita il 12 ottobre. Tempo di realizzazione: quattro anni e mezzo.
L’ultima volta che siamo stati bambini è tratto dal romanzo omonimo di Fabio Bartolomei, edito per E/O e uscito nel 2018, ambientato nell’Italia della seconda guerra mondiale, in cui tre piccoli amici – Cosimo, Italo e Vanda – si mettono in marcia per andare a salvare Riccardo, coetaneo ebreo deportato in Germania.
Qual è stata l’ultima volta che è stato bambino?
Lo sono ancora.
Il poster del suo debutto alla regia fa venire in mente Stand by Me – Ricordo di un’estate e la frase: “Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a 12 anni”. È così anche per lei?
Ho ancora alcuni amici di quando avevo dodici anni. O di quando facevo il militare. Qualcuno negli anni l’ho perso, altri li ho ritrovati, un po’ per il lavoro che faccio, un po’ grazie a Facebook. Poi ci sono amici che rimangono tali anche se non li senti per tanto tempo. Al momento ho una chat su whatsapp con i compagni delle medie, una con quelli del liceo e un’altra ancora con quelli del militare.
Quali erano i giochi che faceva da bambino?
Quelli che uso anche ora. O meglio, che ho utilizzato per il film. Alcuni degli oggetti di scena che ho fatto realizzare si basavano sui miei giocattoli dell’epoca. C’era un’automobile di latta che poteva tagliarti come una lama, probabilmente oggi sarebbe bandita. Avevo anche una pistola speciale: era quasi bidimensionale, col manico di legno e un pezzettino di tubo rosso di metallo che faceva da canna con dentro una molla in cui ci mettevi palline o chicchi di riso che potevi sparare schiacciando il grilletto.
Altri tempi.
Decisamente. Porca miseria. Giocavamo con le cerbottane. Avevo una vera Oklahoma, la pistola ad aria compressa che caricavi con i pallini. Se ti andavano sulla coscia ti facevano male, era pericoloso.
Fare la prima regia è stato più un gioco o più una guerra?
Un gioco durante le settimane di riprese, circa sette o otto, in cui paradossalmente mi sono rilassato. La guerra, se così la vogliamo chiamare, è stata la preparazione. Bisognava trovare e scegliere i bambini giusti. Dopo che abbiamo trovato i quattro giovani attori è stata tutta una discesa. Sono perfetti, il loro lavoro ci ha fatto capire che ce l’avremmo fatta.
Come le è arrivata questa storia?
Da mia moglie, che è anche la co-produttrice del film (insieme a Bisio stesso, ndr.). Legge molto più di me, è lei che mi ha passato il libro di Fabio Bartolomei. Mi ricordo ancora dov’ero quando lo lessi. Mi trovavo al mare, in Puglia, nell’estate 2018. Avevo finito di girare Cops e il romanzo era appena uscito. Giravo le pagine e avevo le lacrime agli occhi. Tutto questo dopo le tante risate che mi aveva fatto fare con le precedenti. Decidemmo di comprarne i diritti e di metterci in cerca di un regista. Poi i miei soci mi chiesero se volessi farlo io. Non ci avevo neanche pensato. È stata la loro fiducia, il loro credere in me che mi ha spinto ad accettare.
È andato tutto liscio?
Mi sono preso un piccolo periodo di riserva. Ho accettato, ma ad una condizione: che trovassimo i bambini giusti. Ci abbiamo messo circa cinque o sei mesi. Se non avessi avuto la certezza di averli, avrei lasciato.
Vincenzo Sebastiani, che nel film interpreta Italo, sembra un versione rivisitata del personaggio di Yorki (Archie Yates) in Jojo Rabbit.
Quando cercavamo Italo avevo ritagliato proprio la foto del personaggio per trovare un bambino che gli assomigliasse. Che poi, in Jojo Rabbit, a interpretare Hitler è il regista (Taika Waititi, ndr), io mi sono limitato a comparire in un cameo come generale fascista, fare Mussolini mi sembrava eccessivo.
I protagonisti intraprendono un viaggio per salvare un loro amico. Sono coraggiosi. Lo è anche lei?
Tutta la mia vita, professionale e privata, è basata sul coraggio. Senza strafare, conoscendo i propri limiti, ma comunque provandoci. E io ho sempre provato. Ho seguito un’intervista di Jannik Sinner, il tennista, molto bella. Dice che tutti lo accostano ai più grandi sportivi, e quando anche Adriano Panatta ha cercato di paragonare le loro carriere, ha risposto che nonostante si senta lusingato lui conosce la sua storia, conosce se stesso, pensa solo alla sua strada, ai suoi limiti e a come superarli ogni giorno. Così giovane (22 anni, ndr), così saggio.
Ammira Sinner, ma nel film la battuta sportiva è sul Milan.
Lo ammetto, è stata una mia imposizione. Ti pare che al mio primo film non mettevo “Forza Milan”? L’avevano anche tolta in un pre-montato, ma l’ho fatta aggiungere di nuovo. Ovviamente non era né nel libro, né nella sceneggiatura. Alcuni l’hanno anche criticata, dicono sia fuori registro. Ma in verità, per me, c’è una storia dietro quella battuta, uno spioncino attraverso cui guardare al rapporto tra padre e figlio. Non sono bravo come Fabio (Bonifacci, lo sceneggiatore, ndr), ma in quello scambio ho cercato di far capire che dietro al tifo c’è un legame tra un padre solitamente molto duro e il proprio figlio. Inoltre mi sono documentato, il Milan è stato fondato nel 1899, quindi storicamente non c’è nulla di errato.
Claudio Bisio che bambino era?
Biondino. Un paciocchetto, proprio come Italo. Venivo un po’ vessato, oggi diremmo bullizzato. E in effetti avevo i miei bulli che mi perseguitavano, pur non andando mai oltre. Non ero uno sportivo, venivo scelto sempre per ultimo quando formavano le squadre. Crescendo ho stabilito una mia ironia. Soprattutto un’autoironia. Ho anche perso i capelli presto. Insomma, di difetti fisici e non ne avevo e ne ho svariati. Cercare la maniera di far ridere è stata la maniera di preservarmi.
Ha chiesto ai suoi giovani interpreti chi sono i loro eroi. Per Carlotta De Leonardis – nel film Vanda – ad esempio, è la mamma. Il suo?
Posso scegliere chiunque?
Chiunque.
Rafael Leão, numero 10 del Milan. Ha sostituito quello che una volta era Ruud Gullit. Ci sono volte in cui Leão ballonzola in giro per il campo, sembra svogliato, come se non gliene importasse nulla. Poi conquista palla, corre, scatta ed è imprendibile. Sono questi i miei modelli: persone che, da un momento all’altro, se ne escono con un colpo di genio.
È vero che ha fatto costruire parti di scenografie che non sono state nemmeno riprese o inserite nelle inquadrature?
Un po’ come Luchino Visconti. Si dice che per Il Gattopardo, per la scena del ballo, aveva fatto mettere dentro ogni cassetto delle forchette e dei coltelli. Non importava che si vedessero. Lui aveva bisogno che fossero lì, che fosse reale. E così è stato anche per me. Riferimento alto a parte.
C’è qualcosa a cui invece ha dovuto rinunciare?
Ho avuto la fortuna di realizzare il film che volevo. Me lo immaginavo così. Il complimento più grande è arrivato da Teresa Marchesi, un’amica giornalista. Anni fa le raccontai la storia e come l’avevo in mente. Lei non aveva letto il libro, sapeva soltanto ciò che le avevo detto in dieci, massimo venti minuti. L’ho rincontrata dopo che aveva visto il film e mi ha detto: è come me lo avevi raccontato. Mi dispiace solo per una sequenza, ribattezzata “Il cortile più grande del mondo”, che ho dovuto tagliare. I bambini vengono da un quartiere chiuso e diroccato, e mentre sono in viaggio si ritrovano di fronte a un campo circondato dalle colline. Era davvero il cortile più grande del mondo. Ma fare il regista significa anche sacrificare delle emozioni per dare ritmo alla storia.
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