“Posso essere onesto? Sono molto curioso. Arrivo a questo debutto a un’età per cui me lo voglio godere. Voglio scoprire come reagirò, come reagirà il pubblico”, racconta Alessandro Roia a THR Roma. L’attore romano, 45 anni, diventato popolare nel 2008 grazie a Romanzo Criminale la serie, è tra i protagonisti di Venezia 80. Ma questa volta per un ruolo inedito, dietro alla macchina da presa.
Un esordio alla regia raffinato, Con la grazia di un Dio, presentato nella sezione Notti Veneziane delle Giornate degli Autori – che gli hanno assegnato il premio SIAE al talento creativo – con Tommaso Ragno nei panni di Luca, un uomo che, dopo venticinque anni di assenza, torna a Genova per partecipare ai funerali di un suo vecchio amico. Lì ritrova i compagni di un tempo. Tutti sembrano convinti che quella morte sia l’esito scontato di una vita di eccessi. Tutti tranne lui, che vuole vederci chiaro, indagare, capire.
Era tanto che aspettava questo momento?
Le persone che mi conoscono bene, che mi vogliono bene, hanno sempre detto che si vedeva, si sapeva. “L’abbiamo capito, ci ha messo solo tanto a farlo”. Ho sempre oscillato tra la passione come spettatore – anche se non mi ritengo un cinefilo per niente, devo imparare da persone molto più in gamba di me – e il divertimento di fare l’attore. Ma sentivo che, mentre ero sul set, ero incuriosito da altre cose. Da come il regista gestisce gli attori, da come imposta la messa in scena. Ho cominciato a sentirmi come se mi mancasse un pezzo.
Sapeva già quale fosse quel pezzo?
Non capivo. Pensavo che fosse frustrazione, per la mia carriera. E invece mi sono reso conto che non mi bastava più apparire. Volevo far parte di tutto il processo.
Questa storia se la porta dietro da tanti anni?
Sì, ma cambiava forma e genere, perché non ero a fuoco io. In due anni, quando ho detto “O adesso o mai più”, è stato come una specie di coming out per me. All’inizio mi vergognavo, ero in difficolt: non sono l’unico che l’ha fatto. Non è una novità e so che sarò inseguito dal pregiudizio, ma va anche bene. Volevo capire se ne fossi stato capace.
E cos’è successo?
Mi sono chiesto: “Come fare un film senza seguire le mode?”. Le influenze nel film ci sono e sono legate a tutto un cinema che mi piace. Ho avuto la grande fortuna di lavorare con un direttore della fotografia, Massimiliano Kuveiller, che mi è stato presentato da Luca Guadagnino. Insieme abbiamo fatto un lungo discorso su come volevamo che apparisse il film. Dopo aver fatto i sopralluoghi e aver letto l’ultima stesura ha realizzato un moodboard (una “tavola” che illustra il progetto, ndr). Lo abbiamo visto e poi non l’abbiamo mai più riaperto. Solo quando abbiamo finito di montare ci siamo resi conto che era completamente in linea con quello che avevamo pensato.
Nella composizione dell’immagine si nota il gusto per la geometria delle architetture. Da dove arriva?
Probabilmente mio fratello, che è un architetto, ha influenzato il mio modo di vedere lo spazio. Anche la mia passione per l’arte – e non solo la parte pittorica – mi ha influenzato. Così come il cinema asiatico. Credo che questo film sia l’insieme di quello che sono diventato negli anni, del mio modo di vedere, anche di fuggire da qualcosa produttivamente più scontato. Un film meno rigoroso e più consolatorio nei confronti del pubblico avrebbe più facilmente successo.
Nel film l’acqua è un elemento che torna più volte. Perchè?
C’è qualcosa di psicoanalitico. È una presenza costante del film. Qualcosa che collega e pone una distanza. Ed è un elemento che suggerisce l’ignoto. È la grande paura, il puntino nell’oceano. Lentamente, insieme al co-sceneggiatore Ivano Fachin, è diventato un personaggio, come la città di Genova.
Era fin dall’inizio la città scelta come sfondo del racconto?
Bisogna dare i meriti a chi ne ha (ride, ndr). Il merito di Genova è del produttore Massimo Di Rocco. Abbiamo fatto un giro che era più simile a un perdersi che a un sopralluogo. Gli ho detto: “Hai ragione al 100%”. Aveva capito il film. Me ne sono innamorato follemente.
Tommaso Ragno era l’attore che aveva in mente fin dall’inizio?
Ci siamo incontrati per caso subito dopo la prima ondata di Covid in un luogo all’aperto. Volevo un attore che non cercasse a tutti i costi il pubblico attraverso la performance, che non avesse paura di essere quasi respingente ma che permettesse allo spettatore di seguire il protagonista a prescindere, di non capirlo quasi tutto il film. Ci serviva un attore che avesse la capacità anche di spostare un pezzettino di ego e dire “proviamoci”. Mi sono trovato molto bene con tutti gli attori. Sono stati molto generosi. Dopo la prima settimana, in cui mi hanno studiato, hanno poi deciso di darmi fiducia.
E come si è trovato nel dirigerli?
La verità è che non mi sono mai svegliato così contento in vita mia. Andavo sul set tranquillo, sorridente, sereno. Avevo voglia di lavorare. E mi sono trovato bene perché loro mi hanno messo nelle condizioni migliori. Perché il novello ero io. Gli altri, in tutti i settori, avevano già i curriculum lunghi. Secondo me ho desiderato così tanto la regia che alla fine le strade erano due. O scoppiavo o facevo il film. E l’ho fatto con una gioia incredibile.
Il suo film parla delle maschere che indossiamo e di amicizia maschile. Perché ha voluto raccontare questa storia attraverso un rapporto “interrotto”? Riaffiorano questioni irrisolte: certe cose non le possiamo archiviare?
Riaffiorare è proprio il meccanismo del film. Non sappiamo mai chi abbiamo realmente al nostro fianco. Quali sono i nostri abissi, i nostri misteri, le nostre vere emozioni rispetto a un amico, un’amica, un amore. È molto più complicato di come sembra. Però decidiamo con coscienza di regolare certi istinti. Di domare i nostri demoni. Volevo seguire quest’uomo, dall’indole violenta, e l“amore” che ha per il suo amico. Un’appartenenza totale che nel ricordo si trasforma. Attraverso i suoi occhi vediamo quello che lui vuole ricordare, la sua necessità di trovare un colpevole.
Lei è stato allievo del Centro sperimentale di Cinematografia. Che opinione si è fatto sul recente riassetto della scuola?
Un disastro. È stato fatto tutto in maniera sbagliata. Si poteva aspettare la fine dei mandati. Senza questa urgenza prepotente che fa un danno agli studenti, alla struttura e a un programma che si costruisce nel tempo. Era evitabile.
Cosa le piace della nostra industria cinematografica e cosa, invece, cambierebbe?
Bisogna fare più attenzione a cosa si produce. Si immettono sul mercato tanti titoli, in maniera bulimica e forse non necessaria. Abbiamo perso terreno nei confronti del resto del cinema europeo. Dobbiamo smettere di far uscire al cinema prodotti mediocri. Per fortuna abbiamo le nostre punte di diamante, autori che hanno la capacità di fare tutto. Penso ad Alessio Rigo De Righi e Matteo Zoppis di Re Granchio. C’è Luca Guadagnino che dimostra come si possa parlare a tutti, a livello globale. La qualità non è solo il piccolo film d’autore, ma anche il super spettacolo d’autore.
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