Nella conca di Manziana la notte fa freddo, dal bosco di betulle cala un umido micidiale, e gli alpini, quelli finti, contano intirizziti i minuti fra l’ultimo ciak e i broccoli strascinati – specialità localissima – in trattoria. Gli altri, quelli veri invitati per consulenza, si aggirano per il set con i lucciconi: la steppa ucraina, concedono, non l’hanno mai vista. Ma la ritirata dalla Russia se l’immaginano «proprio così».
Nella cava di zolfo che fa da set a La seconda via, il film di Alessandro Garilli sulla ritirata degli alpini nel 1943, ci sono capanni, casette di legno, covoni di fieno, stalle con i muli, cannoni. «Ci metti la neve finta e questo bianco è perfetto», dice il regista, abbracciando con sguardo onnipotente la totalità della candida conca: luogo suggestivo, ex area mineraria utilizzata per la produzione di zolfo, da almeno settant’anni meta privilegiata del cinema italiano.
Western alla carbonara
Proprio qui, nel 1966, Sergio Corbucci ambientò l’epico finale di Django, con Franco Nero che al riparo di una croce di legno, bendato e sanguinante, stende sette nemici con sette colpi di colt («E cosi sia!»). Un paio di secoli prima – dice la leggenda – c’era passato anche Cagliostro, l’alchimista palermitano, alla ricerca della pietra filosofale nascosta nelle polle ribollenti della vicina Caldara.
Prima che il moderno western del Django di Francesca Comencini (su Sky in dieci puntate) traslocasse cavalli e cowboy in Romania, tra i lecci della Dobrugia e le spiagge sassose del Danubio, la più economica ed efficace Arizona sul mercato era altrove: tra le colline desertiche dell’Almeria in Spagna, e a meno di 50 chilometri da Roma, nella Macchia Grande del borgo di Manziana. Qui Sergio Leone girò alcune sequenze di Per un pugno di dollari, ventiseiesimo western del cinema italiano (il conteggio è suo), qui nel 1959 Mario Amendola ambientò Il terrore dell’Oklahoma, e dopo di lui le stesse location toccarono a Tonino Valeri, Florestano Vancini, Lucio Fulci, Sergio Sollima, Duccio Tessari.
Corbucci, raccontava la moglie Nori, si svegliava la mattina per girare Django a Manziana, ma la sera rientrava a Roma: dormiva poco, i soldi scarseggiavano, il film lo visse come una condanna. Ma per la gente del posto era una festa: «C’era chi portava il pane fatto in casa, chi la frutta, cibo caldo, i prodotti del posto, ti invitavano a prendere il caffè – ricordava la moglie – Nelle pause andavamo a caccia di trattorie, come una grande famiglia». Chissà quanti broccoli strascicati, per quei cowboy.
Il lago di Excalibur è nel west
Non fu solo la Caldara, coi suoi infernali vapori, ad accogliere il western all’italiana.
Il celebre Casolare delle Pietrische – un casale rurale del Seicento, oggi gestito dall’Università Agraria di Manziana – fu luogo imprescindibile dello spaghetti western anni Sessanta, location cult de Le colt cantarono la morte e fu tempo di massacro, Uno straniero a Sacramento, El Desperado, Per qualche dollaro in meno. Non meno note, le enigmatiche betulle della Macchia Grande – alberi che dovrebbero crescere ad altitudini ben diverse: i botanici le studiano ancora – hanno fatto da sfondo ai duelli di Preparati la bara, Oggi a me, domani a te!, Un esercito di 5 uomini.
E a poca distanza, tra i comuni di Calcata e Mazzano Romano, si trova una delle location più celebri del cinema italiano, le cascate di Monte Gelato, sfondo ideale di centinaia di produzioni cinematografiche fin dagli anni ‘50. Oggi meta di intraprendenti arkeotrekker e riparo ombroso per coppie più o meno clandestine, le cascate sono state tappa obbligata di western come Lo Chiamavano Trinità e Buffalo Bill – Eroe del Far West, di peplum (Ercole al Centro della Terra), commedie (Per Grazia Ricevuta), film di guerra (Quel Maledetto Treno Blindato), fantascienza (Star Crash 2) e persino film erotici (Cicciolina Amore Mio).
Il primo a utilizzarle fu Roberto Rossellini, con Francesco Giullare di Dio, poi Orson Welles con Don Chischiotte, e Franco Zeffirelli che girò qui – unico set non siciliano – una sequenza di Storia di una Capinera. Sempre qui, nelle acque non proprio incontaminate del fiume Treja, riposa la spada di Excalibur: non quella del film di John Boorman, ma quella che Paolo Villaggio, in Superfantozzi, recupera pagandola a caro prezzo dalla Dama del Lago. Con buona pace di Cagliostro e i suoi, che cercavano il magico altrove.
Registi in fila al Monte Gelato
Sulle sponde del Treja, davanti alle cascate, negli anni del boom del cinema italiano i produttori facevano la fila per avvicendarsi sul set. E non è un modo di dire. «Monte Gelato è un unicum, uno spazio molto amato dai cinefili. Ci sono pochi punti disponibili in cui piazzare la macchina da presa, dunque la stessa inquadratura ricorre identica in film diversi in tempi diversi. Negli anni Settanta c’erano le staffette, arrivava una produzione e aspettava che finisse il film precedente, lasciando spesso pezzi di scenografia sul posto». Lo racconta il regista Davide Rapp, che alla location di Monte Gelato ha dedicato un film in di montaggio in realtà virtuale, Montegelato, mostrato nel 2021 alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Una sintesi delle 180 produzioni girate davanti alla cascata, per cui sono serviti «cinque anni solo per recuperare il materiale, 110 film in 160 clip».
La Babylon romana
La concorrenza dell’Est Europa oggi ha reso i boschi di Manziana, Oriolo, Calcata e Mazzano Romano – la Babylon romana, per dirla alla Chazelle – molto più silenziosi. L’ultimo a girare alle cascate è stato Max Croci, nel 2016, con Al posto tuo, mentre nei boschi vicini si avventurava Dario Argento con Occhiali Neri e più di recente Matteo Rovere, che nella Caldara di Manziana ha ambientato alcune suggestive sequenze de Il primo re. Un’area che gli etruschi avevano consacrato al dio dell’oltretomba Manth (da qui forse l’origine del nome Manziana), scelta anche da Roberto De Feo per costruire la spaventosa casa dalle finestre a rombo del suo film Netflix A Classic Horror Story.
«Il fascino di queste location non tramonterà mai – dice Rapp – Sono luoghi speciali, unici e al tempo stesso generici, abbastanza vicini a Roma e sufficientemente lontani per permettere qualsiasi deriva creativa. Saranno sempre un pezzo importante della storia del cinema italiano». Django se n’è andato in Romania, le colt non sparano più. Ma quei posti, nella storia del cinema, restano immortali: la pietra filosofale, forse, è davvero qui.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma