Quindici bestemmie. Tutte in un film di cinquantacinque minuti. In verità, al primo montaggio, Il grande caldo durava un’ora e mezza. Ma, sempre in verità, il film di Dan Bensadoun, Marcello Enea Newman, Daniele Tinti e Luigi Caggiano è anche una pellicola sperimentale di dieci anni fa. Era il 2013 quando un gruppo di amici ventenni si mette all’opera con 850 euro di budget per realizzare un film su un gruppo di amici ventenni che realizzano un film. Sperimentale perché, allora? Non per l’impostazione metacinematografica. E nemmeno per la dilatazione temporale che il film ha richiesto (in fondo la produzione di Boyhood, di Richard Linklater, uscito nel 2014, è durata dodici anni).
“Ci sono stati tanti progetti nati e morti nel giro di niente – spiega Newman – Ma questo ha sempre avuto qualcosa di speciale”. Anche se, lo confessa, in un primo momento l’uscita del film avrebbero potuto inficiare sulla sua carriera come educatore. Meno male che poi ha capito che lui, con i bambini, non ci voleva avere niente a che fare. “Su tutte però c’è sempre stata la questione di essere orgogliosi di aver trovato un modo di rendere la produzione quanto più autonoma e radicale. La manodopera è stata gratuita, abbiamo sfruttato il tempo libero delle persone e abbiamo cavalcato l’onda di un’arroganza che, forse, quando si hanno 21 anni si può anche chiamare coraggio”.
Il grande caldo vive così una seconda vita, arrivando a circa trenta proiezioni dal 2022 in poi, dopo un’anteprima ufficiale al Monk, senza dimenticare però quella prima volta in assoluto, nel 2014, in cui venne presentato al Ristopub 24h di San Lorenzo. Il film ha proseguito girando per il mondo. Oddio, forse non il mondo, ma un pezzettino di Europa sì. Nel mezzo di serate organizzate nei posti più underground che le città che li ospitavano avevano da offrire, l’opera ha gioito anche di un intermezzo internazionale con una proiezione al Ridley Road Market Bar di Londra (organizzata da Festival of Italian Literature in London) e una allo storico Babylon di Berlino in via Rosa-Luxemburg-Straße 30.
A cercare una distribuzione non ci hanno neanche provato (giusto per rimarcarlo, quindici bestemmie non sono facilmente spendibili per un film, in più se italiano). Non sapevano neanche se la pellicola fosse leggibile oltre il raccordo anulare. “I discorsi, le abitudini, magari anche i posti di riferimento cambiano – commenta Bensadoun – Ma che sia Roma o fuori, abbiamo notato che più o meno tutti riescono a riconoscersi in quel tipo di giovinezza. C’è una fetta di pubblico che quando abbiamo girato nel 2013 aveva dieci o dodici anni, eppure alle proiezioni non lo vedono come un reperto storico o una cosa strana. Bensì riescono a ritrovarsi lì dentro” (“Noi no, per fortuna”, fa eco l’amico Newman).
Liberi e anarchici. Pronti, forse, per Il grande caldo 2
Ed effettivamente Il grande caldo è un Ufo che si sposta non solo al suo stesso interno, come dimostra il continuo rimontaggio di Caggiano, unico rimasto nel mondo del cinema in senso stretto e a cui manca “la libertà con cui abbiamo lavorato, avevamo organizzato tutto all’ultimo, non c’erano vincoli”. Ma lo fa girovagando di sala in sala, di luogo d’appartenenza in luogo d’appartenenza. “Adattandosi a varie situazioni”, parola di Bensadoun.
E, dopo dieci anni, gode anche di una “star” trainante, di un nome di spicco che i suoi colleghi/amici non si vergognano a definire l’asso nella manica con cui richiamare l’attenzione. “Per una questione di promozione sono ben contento di mettere a disposizione notorietà e followers – afferma Daniele Tinti, conduttore di Tintoria insieme a Stefano Rapone e volto noto della scena comica italiana – Ma la felicità è quando chi mi conosce per la stand-up comedy e i podcast incontra anche un progetto come Il grande caldo, girato in un periodo in cui non potevo neanche immaginare che sarei riuscito a fare della comicità il mio futuro”.
Nella Roma calda di una commedia mumblecore, che odia La grande bellezza – anche se forse gli ruba l’idea della terrazza – e si domanda se va bene usare Proust come metodo per scopare, almeno un pochino di più, Il grande caldo è un altro di quegli esempi di ideazione e diffusione alternativa che riempiono le sale più di quanto riesca a fare qualsiasi altro prodotto commerciale. Paola Cortellesi a parte, si intende. È l’entusiasmo di sale gremite di gente che il cinema, anche diverso e stropicciato, se lo va a cercare. E vuole scoprire in quanti modi è possibile raccontare e costruire una storia, magari aggirando il sistema.
Un interesse mostrato anche dal Centro Sperimentale di Cinematografia, che durante la sua occupazione estiva ha organizzato una serata di proiezione de Il grande caldo: “A noi sembrava un’assurdità che esistevano dei mezzi di produzione cinematografica diventati iper-economici, di bassa fedeltà, e che la gente attorno a noi, creativa, non stava usando questa roba per fare un film”, ricorda Marcello Enea Newman, citando la 7D con cui hanno girato e ragionando su una possibilità di realizzazione audiovisiva “indisciplinata” applicabile ancora oggi. “Volevamo fare qualcosa di bello, che avrebbe potuto far dire a qualcuno: sai cosa, posso farlo anch’io”. Come loro, forse, possono fare adesso Il grande caldo 2. Come già ci hanno pensato negli ultimi dieci anni. E come, forse, continueranno a pensarci per i prossimi dieci.
Quest’anno Il grande caldo sarà incluso nella rassegna “L’Italia che non si vede”, di UCCA, l’unione dei circoli cinematografici dell’Arci. Il film girerà nei circoli Arci di tutto il territorio nazionale il prossimo anno. Il cuore della rassegna è di divulgare un cinema legato a temi che non sono all’ordine del giorno nel dibattito pubblico.
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