Lei è una suora, lui un fascista. Prima ancora sono stati una guerriera (in protolatino) e un ragazzo che doveva capire se stesso, trovando il coraggio di fare coming out. Marianna Fontana e Federico Cesari sono i protagonisti del primo lavoro da regista di Claudio Bisio, L’ultima volta che siamo stati bambini, film uscito al cinema il 12 ottobre e con il maggior numero di presenze (66 mila) al suo primo weekend in sala. L’opera è ambientata durante la seconda guerra mondiale e i personaggi di Vittorio (Cesari) e suor Agnese (Fontana), alla ricerca di tre bambini partiti per recuperare il loro amico ebreo dalla Germania, si incamminano su un percorso di cambiamento e crescita, un po’ come quello che i due giovani affrontano ogni giorno tra set, incertezze e voglia di giocare.
Due carriere e due caratteri differenti. Mentre l’attore romano – classe ’97 – arriva dal successo seriale di Skam Italia, diventando poi protagonista di Tutto chiede salvezza di Netflix, per l’interprete nata a Maddaloni – coetanea del collega – e scappata in città sono le grandi firme del cinema a segnarne gli esordi: Edoardo De Angelis con Indivisibili (2016) e Mario Martone con Capri-Revolution (2018). Due continui opposti, dall’esuberanza di Cesari al rigore di Fontana. Ma più vicini di quanto si pensi, sia nella voglia di divertirsi che di sperimentare, oltre che nella paura della fine e nel desiderio di continui inizi.
Siete insieme nel film L’ultima volta che siamo stati bambini. Voi che bambini eravate?
Federico Cesari: Sono stato un bambino molto docile, almeno secondo i racconti di mia madre. Non ne ho molta memoria, ci sarà stato un trauma che ha bloccato il flusso dei ricordi. Non cercavo nemmeno attenzioni. Alle recite ero sempre sullo sfondo, non sono mai stato il protagonista.
Marianna Fontana: Da piccolina ero abbastanza ribelle. Soprattutto se mi davano qualche regola.
Quali erano i giochi che facevate?
F.C.: Giocavo a calcio, come tutti i bambini. E mi piaceva impersonare diversi ruoli. Ho iniziato a interpretare dei personaggi di fantascienza con mia madre, soltanto dopo è arrivata la recitazione.
M.F.: Avevo le Barbie, ovviamente. E con mia sorella inventavamo delle storie mentre eravamo nella nostra cameretta. Avendo una gemella ho vissuto quasi un’infanzia doppia, in cui avevo sempre una compagna di gioco.
Recitare lo vivete ancora oggi come un gioco?
F.C.: Per forza, è un elemento fondamentale. Il problema sussiste proprio nel momento in cui mi dimentico che sto giocando. E per giocare intendo mettersi a sperimentare durante una scena, lasciarsi sorprendere, non aspettarsi mai nulla e cercare sempre qualcosa che mi accenda.
M.F.: Il gioco è una componente che fa parte di questo lavoro. Quando giochi vuole dire che funzioni, che vai sul set e crei mondi immaginari.
I vostri personaggi nel film diretto da Claudio Bisio cambiano nel corso della storia. Se non fosse andata come attori, avevate un piano B? Come quella laurea in medicina di Federico…
F.C.: La laurea c’è, può tornare utile, ma speriamo di no. Da bambino volevo fare l’archeologo. Al parco mi divertivo a trovare pezzi di bottiglia pensando che fossero dei mosaici, delle pietrine preziose che avevo scovato. Quello era il sogno, voler fare il medico è venuto dopo. Come l’attore. Diciamo che mi sono permesso di rischiare.
M.F.: Fin da piccolina ho sempre voluto fare qualcosa che riguardasse l’arte. Mia madre è un’appassionata e ci ha indirizzato verso un lato più estroso. Inoltre è una patita di musica, per questo ci siamo date da fare col canto, anche se poi la nostra strada è cambiata.
Sullo sfondo di L’ultima volta che siamo stati bambini c’è la seconda guerra mondiale. Ad oggi si stanno attraversando, seppur lontane, delle guerre che destabilizzano. Come vivete questi periodi di incertezza?
F.C.: Credo che questa instabilità sia un fattore determinante sulla salute mentale dei ragazzi della mia generazione. Forse siamo i primi a cui non viene data una garanzia di futuro. Ci sono casi in cui cerco di tramutare questa incertezza in uno stimolo che possa così spronarmi a buttarmi nelle cose.
M.F.: È un periodo difficile che ha avuto il suo inizio col covid. Ha creato una distanza tra le persone che è stata alimentata dall’utilizzo dei social, oramai alla mano di tutti. Non ci sono più relazioni umane. Rimango però positiva, la nostra generazione ha le idee chiare su dove vuole andare, anche se non è facile in questa società.
È stata citata la salute mentale. Come vi prendete cura di voi stessi?
F.C.: Ho i miei piccoli rituali quotidiani. E quando mi sento un po’ giù ho diverse cose che so possono aiutarmi. Vedere un film che mi piace, ad esempio. Andare dallo psicologo, poi, per me è una salvezza.
M.F.: Ultimamente sto facendo yoga. La mediazione aiuta e scioglie le tensioni del corpo. Poi c’è il cinema. Praticamente ci vado tutta la settimana. È un momento in cui stacco e non penso a nulla.
A proposito di cinema, c’è qualche figura che apprezzate particolarmente?
F.C.: Ne ho varie e in vari ambiti. Adoro Elio Germano.
M.F.: Strano infatti, non vi somigliate un po’, no? (Ride, ndr). A me piace tantissimo Anna Magnani. La vedo come un’emblema. E come regista, invece, Krzysztof Kieślowski.
Ultimo film o serie che vi ha colpito?
F.C.: Sto vedendo Atlanta.
M.F.: Rimango su Kieślowski. L’ho rivisto da poco al cinema e mi ha ritirati fuori quell’amore che già era nato qualche anno fa.
Entrambi avete anche un percorso nella serialità. Federico con Skam e Tutto chiede salvezza, Marianna con Romolus. Come si va in profondità, giorno per giorno, in un personaggio che si vive in più puntate?
F.C.: Dal punto di vista dell’interpretazione attoriale, la serialità dà la possibilità di caratterizzare meglio un personaggio. Al cinema si fa un lavoro diverso, quasi più a favore dell’opera in sé, dello stile del regista, mentre nella serialità è la storia dei personaggi a interessare. È entrare in quella loro vita che li rende delle persone e che, in qualche modo, permette loro di far parte della quotidianità stessa degli spettatori. È un lavoro stimolante per un attore, ma anche molto stancante. Faccio abbastanza difficoltà nel momento in cui finisco una serie, perché è come chiudere un capitolo della vita che richiede un impegno fisico ed emotivo.
M.F.: La serialità ti dà la possibilità di far crescere un personaggio dalla prima all’ultima puntata. Con i film i tempi si stringono. Ho trovato formativa la mia esperienza con Romolus, andare tutti i giorni sul set, starci per tot mesi, è stato come una scuola. Il ritmo è completamente diverso, si arriva a girare tre o quattro scene al giorno, mentre al cinema già due è dire tanto. È una palestra che ti fa crescere.
Sui prossimi ritorni? Federico, sarà in Skam 6?
F.C.: Al momento penso di no.
Romulus 3 invece si farà?
M.F.: Per adesso non so nulla. Vedremo.
Lavorando insieme, cosa avete rubato l’uno dall’altra?
F.C.: Marianna mi ha aiutato tanto. Sono una persona dispersiva. Mi lascio influenzare dal contesto, dal cercare di prendere cose dagli altri. A volte trovo quello che mi serve proprio in altre persone, per questo ho bisogno di parlare e di entrare in contatto con la gente. Marianna, invece, è più solida. È strutturata, dentro e fuori il personaggio. Ha un metodo e lo segue. Per prepararsi alla giornata di set, quando la mattina scendevo in hotel per fare colazione, la beccavo seduta sul divano con le cuffiette mentre ascoltava cori della chiesa.
M.F.: Federico è un attore strepitoso perché è una grande persona. E’ facile lavorare con lui. È talmente empatico da farti percepire il suo amore per il lavoro. Ci mette tutto se stesso e questa sua purezza traspare nel momento in cui lo guardi negli occhi. In quell’istante entri automaticamente nella scena e inizi, per l’appunto, a giocare.
Da una parte i cori della chiesa per entrare nel personaggio, dall’altro anche i costumi e la scenografia. Che effetto vi fa indossare abiti di altri tempi?
F.C.: Ho sempre bisogno di conferme e sul set le riesco a trovare quando posso identificarmi con una verità più accurata possibile in riferimento all’epoca in cui mi ritrovo. Il film di Bisio è ambientato negli anni quaranta, per me era fondamentale immedesimarmi tramite il costume di un fascista, altrimenti non ci sarei mai riuscito. E sempre Vittorio, il personaggio che interpreto ne L’ultima volta che siamo stati bambini, quando perde l’uniforme comincia anche la sua trasformazione.
M.F.: All’inizio ho trovato difficoltà nell’indossare l’abito da suora. Non me lo sentivo bene addosso, non sapevo come dovevo comportarmi con quell’abbigliamento imponente. Ma conoscere il costume e portarlo è fondamentale. L’ho capito con Romulus: quando ho preso in mano la spada e la corazza mi sono vista come una guerriera.
Quali sono le vostre paure più grandi?
F.C.: La morte. Non solo come la mia, personale, ma in quanto concetto di fine. La chiusura di un determinato percorso. Anche se può significare che se ne apre uno successivo. Comunque mi spaventa.
M.F.: La stessa cosa. Citando un grande film, ho paura di disunirmi (È stata la mano di Dio, ndr). Ho paura di svegliarmi un domani e non essere più a fuoco, di perdere il mio centro. Forse è la paura di diventare grande? Anche. Ma è soprattutto il tempo che passa. Il tempo che passa e mi fa un po’ paura.
Qual è il fuoco che avete dentro?
F.C.: La voglia di cambiare. Essere sempre in qualche modo diverso da me. Sono una persona che si annoia quasi subito. Per questo penso di aver scelto il lavoro giusto.
M.F.: Ho un fuoco dentro e credo si leghi alle mie origini, al paesino da cui provengo e al fatto che volevo spostarmi, andare in città, non stare alle regole. È il mio essere ribelle, che mi porto dietro proprio da quando sono bambina.
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